Novembre 2019. All’aeroporto Beauvais Tillé di Parigi atterra un volo di linea che si è lasciato dietro circa 900 chilometri di cielo. In realtà, ha percorso un tratto molto più lungo, l’equivalente di un trasferimento luna-terra andata e ritorno. Il pilota si chiama Laura Di Patria, PhD Student in Scienze della Vita, Salute e Biotecnologie, 33° ciclo.

Laura per prima cosa torniamo indietro di un anno.

D’accordo. Un anno fa sono partita per Parigi, per svolgere un’esperienza di otto mesi come PhD visiting student presso l’Institut Gustave Roussy.

Il tuo ambito di ricerca?

Quando sono arrivata mi hanno inserita in un progetto riguardante modelli cellulari di osteosarcoma giovanile. Sono stata seguita dalla dottoressa Olivia Fromigué, esperta in osteosarcoma e accolta in un’équipe di oncologi pediatrici, biologi e bioinformatici.

Quando dici équipe quante persone stai comprendendo?

In quel gruppo eravamo circa una dozzina tra bioinformatici, biologi e oncologi pediatrici, una squadra composita: si va dai tesisti ai ricercatori con molti anni di esperienza alle spalle.

Riprenderemo il discorso più avanti. Adesso cerchiamo di spiegare come ci sei arrivata a questo primo traguardo.

Dunque, comincerei dal mio curriculum scolastico.

Bene.

Sono diplomata al liceo classico. A Roma ho frequentato la triennale e la specialistica in Scienze dell’alimentazione e nutrizione umana. Dopo la laurea mi sono iscritta all’albo dei biologi ed ho svolto un Erasmus+ Traineeship. Ho trascorso sette mesi presso il dipartimento di Fisiologia vegetale, all’Università di Murcia, in Spagna.

Prima tranche. La seconda?

A quel punto avevo 26 anni. Ho cominciato a inviare il mio curriculum, alla ricerca di una posizione corrispondente al mio profilo.

Risultato?

Molte aziende hanno rifiutato la mia candidatura: cercavano persone di almeno 28 anni e con minimo tre anni di esperienza nell’ambito della ricerca. Un ossimoro.

Come hai reagito a questa difficoltà iniziale?

Ho deciso di tentare la strada del dottorato partecipando a diversi concorsi.

Quanti?

4, in altrettanti Atenei, di cui 2 vinti: all’Università Roma Tre e all’Università di Urbino. Ho scelto Urbino, certa di essere seguita al meglio.

E rieccoci tornati a Parigi.

Sì. Il mio percorso di dottorato non aveva alcun obbligo di soggiorno all’estero ma, come dicevo, grazie alla mia tutor ho avuto questa opportunità.

Come è stato il tuo inserimento in un laboratorio europeo ed internazionale?

C’è stata nei miei confronti grande accoglienza, ho trovato persone disponibili, non ho trovato né rivalità né competizione. Tra colleghi ci scambiavamo idee e consigli. Per non escludere nessuno, durante le pause si parlavano diverse lingue. I laboratori dell’Institut d’altronde sono luoghi internazionali. Ne ho approfittato per rimediare alle lacune del mio francese, rimasto inutilizzato dalle scuole medie. Mi sono anche iscritta ad un corso serale organizzato dal municipio poco lontano dal monolocale in cui ho abitato, nel quartiere Le Marais.

Nessun assestamento iniziale?

Come prima cosa ho incrociato uno sciopero nazionale durato due mesi. Poi è arrivato il Covid; altri due mesi di lockdown, durante i quali ho lavorato in home working. È stata l’occasione per analizzare i dati conclusivi della mia esperienza in vista di una possibile pubblicazione. Sono tornata a lavoro prima del supervisore e ciò mi ha permesso di portare avanti il progetto e acquisire ancora più autonomia e indipendenza.

Parigi come ha cambiato il tuo approccio?

Quando sono partita ero piena di paure: la lingua, la città, l’ambiente lavorativo… Paure superate. Spesso fare ricerca ci rende spettatori dietro le quinte… Ben poche volte siamo “colpiti” direttamente da ciò che vi è a monte di un progetto. Ho toccato quasi “con mano” la realtà che dà avvio alla ricerca in quell’istituto… Per recarmi all’ultimo piano, in ascensore, mi è capitato spesso di incontrare pazienti oncologici, soprattutto bambini, e le loro famiglie. È stata una delle cose che emotivamente mi ha segnata di più, che mi ha fatto vedere la ricerca da un punto di vista nuovo e profondo… E che adesso mi fa dire convintamente di voler proseguire in questa direzione.

Il tuo traguardo più ambizioso?

Trovare una terapia oncologica, il sogno di tanti biologi. È un traguardo ambizioso e quasi irraggiungibile, ma non impossibile. In ufficio mi hanno regalato una calamita con scritto impossible n’est pas français. È una frase che ho imparato “a fare mia”. Soffro di ipoacusia sin da bambina. Ho affrontato numerose difficoltà e, soprattutto, molte persone spaventate dal concetto di “diversità”. Ho affrontato e affronto quotidianamente sfide legate a questo “problema” cercando di non renderlo mai tale. Soprattutto durante il periodo in istituto, mi sono state riconosciute capacità e competenze che non pensavo di possedere. La difficoltà iniziale della lingua francese… Scoglio che sembrava insormontabile… Et voilà… Parlo francese, spagnolo e inglese e, ovviamente, italiano.

 

Al di fuori dell’orario di lavoro come hai occupato il tempo libero?

Adoravo trascorrere intere giornate al Museo d’Orsay, fare lunghe passeggiate in Rue du Louvre, sul Pont Neuf fino a Notre-Dame. Così ho coltivato l’immediata alchimia che ho sentito con questa città.

Che cosa leggi solitamente?

Ho un debole per i classici: Dante, Omero, Virgilio. Amo anche i classici un po’ più contemporanei come Ignazio Silone, Sepulveda ed Hemingway. Però leggo di tutto, ogni momento è buono per un buon libro!

Si capisce che lo studio e l’approfondimento fanno parte di te più che della tua carriera. Qual è il tuo metodo?

Quando affronto un argomento pongo mille domande, voglio comprendere fino in fondo. Ho sempre pensato che un’idea non può essere mai avviata e strutturata senza una dettagliata e approfondita ricerca bibliografica.

Un consiglio a chi vuol fare un percorso simile?

Lo stimolo principale: mettersi in gioco, sempre, con passione e smisurata curiosità. Tirate fuori le vostre idee!

Cosa c’è di imprevedibile in ciò che fai?

La ricerca è piena di sorprese. Di recente ho lavorato alla valorizzazione degli scarti di una specie di limone pugliese molto rara e alla sua “riscoperta”. È un progetto che sto portando avanti parallelamente al dottorato. Un’idea nata diversi anni fa e che l’Università di Urbino mi ha permesso di realizzare. Durante la tesi magistrale, ho avuto modo di studiare scarti alimentari per la realizzazione di nuovi integratori alimentari contro le radiazioni ionizzanti-cosmiche, in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana. E da lì è nata la passione per gli integratori e i nutraceutici. “Sfizio” che ho portato avanti durante l’esperienza Erasmus+ Traineeship in Spagna.

Hai già definito la tesi di dottorato?

Sì, sarà sul fattore di crescita IGF-1, un polipeptide che svolge ruoli essenziali nel normale sviluppo e differenziamento dei tessuti.

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