In dodici tappe monografiche, il 25 di ogni mese, Uniamo condivide alcune tra le più intense pagine dedicate da Carlo Bo alla “città dell’anima”: Urbino. Parole di minuziosa e appassionata bellezza da leggere e ascoltare!
Dopo Urbinate per sempre e Il vento del Montefeltro, arriva oggi sul web Urbino a Raffaello.

Ristampato lo scorso anno nei “Quaderni della Fondazione Bo”, il testo accoglie il discorso pronunciato dal Magnifico Rettore il 6 aprile 1984, in apertura del convegno internazionale Studi su Raffaello, nel cinquecentenario della morte di Raffaello Sanzio.
Ad interpretarlo è Simone Dubrovic, Full Professor of Italian Modern Languages & Literatures al Kenyon College di Gambier, nello stato dell’Ohio.

Partner del progetto internazionale Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito – ideato e coordinato da Tiziana Mattioli, docente di Letteratura italiana dell’Ateneo urbinate, e promosso nell’ambito del Prorettorato allo Sviluppo di Partenariati Strategici Nazionali e Internazionali – il Professor Dubrovic ha approfondito l’argomento nell’intervista che segue.

Per ascoltare e leggere i testi è possibile accedere al sito dedicato al progetto cliccando su eventi.uniurb.it/urbinate-per-sempre

 

 

Il Professor Simone Dubrovic

Professor Dubrovic, nel 2015 ha raccontato ai nostri lettori di lavorare e vivere tra l’Italia e gli Stati Uniti in un equilibrio tutt’altro che precario. È ancora così?

Sì, ancora mi riesce di lavorare e vivere tra Italia e Stati Uniti, con la consapevolezza, ahimè, che gli eventi non sono spesso amici degli equilibri che cerchiamo di creare e richiedono, di conseguenza, continui adattamenti. Ma il legame che ho con l’Italia o, almeno, con la “mia” Italia è così irrazionalmente forte da farmi rimanere ogni volta del tutto sbalordito.

So che ha aderito con grande entusiasmo al progetto Urbinate per sempre e questo senz’altro testimonia il suo forte legame con Uniurb!

Urbino con il tempo è diventata per me una vera e propria immagine della mente, un palinsesto allegorico della nostra cultura e civiltà. Il Palazzo Ducale è quello che mi piace chiamare il “Libro archetipico”, un libro architettonico che racchiude in modo struggente la favola dolorosa e splendida della vita. Non dimentichiamo che dentro il Palazzo Ducale ci fu per lungo tempo la Scuola del Libro.

 

È però, anzitutto, grazie alla generosità dell’amica Professoressa Tiziana Mattioli che sono stato coinvolto in questo progetto straordinario – da lei ideato – di far riscoprire la bellezza del Palazzo Ducale come forza di coesione, entusiasmo, progettualità. Quella bellezza da cui si origina anche l’utopia di una politica vera, che Bo, l’ultimo dei duchi, aveva colto e realizzato, lasciando nel vento, nel cielo, nelle pietre e nella luce di Urbino il ricordo di una stagione indimenticabile.

 

Oggi, nell’esproprio della realtà che tutti noi in modi diversi stiamo vivendo, ecco che quella stagione, finalmente, possiamo riconoscerla, ricevendone tanto generosamente la forza, l’incoraggiamento quasi per riuscire a pensare ancora a un futuro; perché, se è vero che essa non è più accessibile per noi, tuttavia “c’è stata”. E questo è già motivo di profonda consolazione.

Oggi è full professor al Kenyon College, ma la sua carriera ha avuto inizio nelle aule dell’Università di Urbino dove ha frequentato la facoltà di Lettere classiche e ha, certamente, avuto consuetudine con gli scritti di Bo.

Come succede sempre nella vita il calendario delle esperienze e quello della conoscenza vera – cioè della reminiscenza e poi approfondimento di quello che si credeva di sapere – non coincidono. Quando ero studente a Urbino Bo era il Rettore dell’Università e questo suo ruolo, questa sua figura ubiqua oscurava probabilmente, per motivi che non so spiegare, un avvicinamento più diretto al suo lascito intellettuale, visto nella sua complessità.

 

Il nome di Bo, nei libri di testo, veniva essenzialmente ricordato per l’ermetismo e per il neorealismo. Più avanti ho cominciato a leggerlo seriamente, ritrovando, nella complessità del suo pensiero – dove lo spazio “bibliomentale” immenso vive di una ricerca spirituale profonda – il senso di quegli anni giovanili a Urbino.

Insegnando Lingua e Letteratura italiana e Cinema non mancherà di interrogarsi sulle connessioni tra letteratura e scrittura cinematografica. Un’indagine alla quale anche Bo dedicò un capitolo de L’inchiesta sul neorealismo.

Sì, è vero, è qualcosa su cui tanto è stato scritto e tanto si continuerà a scrivere ma il cinema, nella sua realtà di arte, funziona attraverso dei meccanismi che non sono quelli della letteratura. Principalmente perché la letteratura viene “dopo” l’esperienza e il cinema invece viene “durante”. Si può avere l’impressione, alla fine del film, di aver davanti qualcosa di simile a un testo letterario, ma non è così.

 

La poesia del cinema è proprio l’incidente dell’immagine che non riesce a trascendere se stessa, incarnata per sempre nelle sembianze del mondo con la nostalgia del nascosto, inesprimibile e non identificabile: e tutti i grandi registi questo l’hanno sempre capito.

 

Oggi quando parliamo di cinema non parliamo nemmeno più di cinema ma di un cinema di ieri l’altro, ormai scomparso, sostituito dal nuovo linguaggio delle fiction e delle serie televisive o, peggio, di quelle delle piattaforme online, che non solo hanno dissolto l’esperienza collettiva di stare insieme, nello stesso tempo in una sala cinematografica, ma hanno anche fatto letteralmente a pezzi la sofisticata grammatica del grande cinema.

Confidando nella possibilità che il magistero di Bo trovi presto spazio anche nei suoi corsi di studio, concludo chiedendole: quali sono gli aspetti della storia culturale italiana che più sollecitano l’attenzione degli studenti americani?

Gli studenti americani cercano essenzialmente un contatto diverso con se stessi, altre parole e forme per capirsi, quando studiano prima la lingua e poi i testi e i film del cinema italiano. Credo che siano interessati non tanto a uno o più aspetti della storia culturale italiana, ma alla verità e alla precisione con cui il lascito artistico, letterario e cinematografico dell’Italia sa entrare nelle contraddizioni dolenti del mondo, della vita, dell’esperienza.

 

Questo lo si deve principalmente alla tensione che l’Italia ha sempre vissuto intimamente tra definizione e caos, tra norma e natura, cosa che ha conosciuto nell’arte – che ha tentato di riconciliare questi poli – dei risultati di una bellezza assoluta. Una bellezza che oggi parla più che mai, in un’epoca in cui le stesse definizioni e norme rischiano di rendere tutto impermeabile e in cui l’autenticità (e complessità, anche nelle sue valenze negative, rischiose e necessarie) dell’esperienza arriva persino ad autocensurarsi nel nome di un tendenzioso esercizio di agende politiche. È quello spazio di letteratura pura proposto da Bo che bisogna assolutamente recuperare e, soprattutto, insegnare.

 

Mi permetta allora di concludere questo nostro incontro con alcune parole di Bo stesso, tratte da Letteratura come vita: “Perché non si vuol dir altro, quando si parla di letteratura come vita, non si chiede che un lavoro continuo e il più possibile assoluto di noi in noi stessi, una coscienza interpretata quotidianamente nel giuoco delle nostre aspirazioni, dei sentimenti, e delle sensazioni. L’identità che proclamiamo è il bisogno di un’integrità dell’uomo, che va difesa senza riguardi, senza nessuna concessione”.

 

 

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