Un’acuta distinzione la fece Elio Vittorini, intervistato nel 1963. Esistono – diceva – due tipi di libri: quelli che possono considerarsi “beni di consumo” e che fanno circolare una “letteratura a funzione venosa (che riporta il sangue già sfruttato da altri ai polmoni)”. Poi ci sono “le opere intese come mezzi di produzione, quelle cha hanno una funzione arteriosa (cioè di portare il sangue a nutrire la vita degli arti)”. La vita degli arti è la vita degli altri, riga dopo riga il nutrimento di inchiostro e carta rimpingua la pancia del lettore.

Alessandro Zaccuri, giornalista e scrittore, ha dedicato un volume alla parola scritta come alimento e ai classici. Ce ne ha parlato nei giorni scorsi, quando è stato ospite del nostro Ateneo per partecipare all’incontro organizzato dal Centro Teatrale Universitario Cesare Questa, in collaborazione con il festival Urbino e le città del libro, l’Istituto di Istruzione Superiore Raffaello e il Liceo Scientifico e delle Scienze Umane Laurana-Baldi.

Quando leggiamo che cosa facciamo veramente?

L’esperienza della lettura oltre che un’esperienza intellettuale è un’esperienza di vita e come tale si ha il desiderio di condividerla con gli altri. Un po’ quel che capita quando ci si innamora e lo si dice agli amici, gli amici lo dicono ad altri amici e finisce che ti sei rovinato la reputazione. Al di là di questo credo che ogni lettore abbia diverse fasi nella vita: superata la prima fase, definiamola egoistica, di pura scoperta, di divertimento, di accumulo, si entra nella dimensione della condivisione, della comunità dei lettori. Ed è qui il nesso tra lettura ed esperienza. Il libro, se preso sul serio, è uno strumento in grado di fornire le parole per affrontare l’esperienza. Ti allarga lo sguardo, ti aiuta a dare ascolto alle persone che hai attorno. Questo non accade magicamente, la lettura non rende automaticamente persone migliori, ma pone le condizioni per diventarlo. Il lettore ha, se così si può dire, l’onere della prova. Leggere, infine, è un piccolo grande privilegio: significa avere tempo, energie da dedicare, significa innanzitutto avere un libro.

Le celebrazioni del Giorno della Memoria pongono di fronte al valore della parola. Lei ha citato il caso di Primo Levi che ridice Dante a memoria nel lager e titola il X capitolo di Se questo è un uomo Il canto di Ulisse.

Grazie alle cronache, ai diari e alle testimonianze della Shoah ci si rende conto di come vittime e carnefici avessero letto gli stessi libri. Levi lo scrive riferendosi al manuale di chimica su cui aveva studiato a Torino e che ritrova ad Auschwitz in uso al Kommando Chimico. Una circostanza che lo lascia turbato: quel testo è del tutto incongruo al luogo. Eppure, proprio perché incongruo, può aiutare a capire che cos’è veramente un campo di concentramento. Per i carnefici i libri erano soltanto un dovere da compiere, qualcosa per abbellire la vita e non per cambiarla. Mentre Dante per Primo Levi o Goethe per moltissimi deportati di cultura tedesca erano la grande tradizione letteraria di cui impossessarsi. C’era bellezza nel citarli, ma non solo bellezza. C’era umanità, conoscenza, esperienza, necessità di condivisione, di ridare dignità alle parole e, da ultimo, c’era salvezza. Lo stesso Levi non ha inteso scrivere un bel libro, ma un libro che fosse il più aderente possibile alla sconvolgente realtà vissuta. In questa prospettiva tutti i capolavori hanno una zona d’ombra che chiede di essere illuminata nell’esperienza di ciascuno.

Carlo Bo in una delle ultime interviste disse che l’Italia è un Paese di narratori e poeti “non di romanzieri”, “qui non c’è una società”. Concorda?

La mancanza di società era già stata denunciata da Giacomo Leopardi: non esiste la società italiana, esistono i costumi. Per certi aspetti è una lettura possibile de I promessi sposi, dove troviamo un popolo e non una nazione. Se per romanzo intendiamo il libro ben confezionato nella sua struttura classica, ce ne sono stati molti e tuttavia non sono quelli che hanno segnato la nostra letteratura. Straordinariamente ricco è il genere misto di storie e di invenzione, di testimonianza, come nel caso di Se questo è un uomo, il cui genere è indefinibile. Quindi abbiamo una tradizione di romanzi molto complessi che mettono in dubbio ciò che si sta facendo. Gadda va in questa direzione, la Morante de La storia. Ognuno di questi grandi autori costruisce la propria società, i propri interlocutori.

I promessi sposi sono così un’eccezione?

Questo romanzo è arrivato talmente perfetto all’ultima stesura che, io credo, abbia inibito gli scrittori successivi. Si tratta di un precedente edipico.

La letteratura può costituire l’ossatura di una società o può darne soltanto conto, raccontarla?

L’italia ha avuto una letteratura prima di avere confini geografici, è stata sempre una comunità di idee, parole e bellezza e non di decisioni politiche. La domanda è un dilemma. Senz’altro riflettere su che cosa significhi essere italiani attraverso i libri è un’operazione interessante, soprattutto in un momento storico come questo. C’è un aneddoto molto interessante. Milano, qualche anno fa: alle persone che si sposano in municipio viene donata una guida (degnissima) per scoprire la città. Qualcuno lamenta come in passato l’omaggio fosse una copia de I promessi sposi. Risposta alle polemiche: il Manzoni lo abbiamo letto tutti al liceo. Impressionante!

Intanto bisogna osservare che non tutti hanno fatto il liceo. Poi, forse, trovandoci davanti alla questione immigrazione, fare entrare Manzoni nelle case avrebbe contribuito a far comprendere meglio il nostro Paese. Esattamente come una persona emigrata in Germania nella prima metà del Novecento si sarebbe dovuta necessariamente imbattere in Goethe per capire quella terra. Non si tratta di ripartire dai classici in generale, ma da quel classico che è al tempo stesso un libro sulla cittadinanza, sulla prepotenza, sulla violenza. I promessi sposi contengono tutti i problemi dell’oggi, addirittura dentro ci troviamo l’organizzazione mafiosa basata sull’omertà e sull’intimidazione, gli uomini di cui dispone don Rodrigo. Mettere questo testo nelle mani di un cittadino o di un aspirante tale vuol dire fornirgli tante parole, tanti sguardi, tante occasioni di pensare all’Italia.

La lettura a scuola spesso viene vissuta negativamente. Ci sono i “libri dell’obbligo”, c’è il programma da rispettare…

Certamente da quest’obbligo non ci si può sottrarre. Ma il punto è arrivare a capire che ciò che si presenta sotto la forma dell’obbligo è in realtà un’occasione preziosa e può diventare un dono. Per quanto la parola giusta da “accostare” a lettura sia “piacere”, fidarsi di questo tipo di imposizione è buona cosa. Ci sono molti giovani che hanno scoperto il piacere della lettura a scuola, non dimentichiamolo. Il successo, in larga misura, è dovuto alla qualità del libro che deve riuscire a riflettere l’esperienza di chi legge e, al contempo, ad aggiungervi qualcosa, porgli un ostacolo. Ma proprio perché i buoni libri pongono piccoli ostacoli occorre avere buoni accompagnatori. Chi propone un autore in aula non può limitarsi alla compilazione di un elenco di lettura.

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