21 novembre 2018. Silvia Francucci pronuncia questa data rapida e precisa sulle sillabe, senza tentennamenti. Di solito si scandisce così il giorno di nascita. Per lei evidentemente quelle 24 ore rappresentano molto.

 

Silvia che cosa è successo il 21 novembre 2018?

Ho discusso la tesi di laurea in Scienze della Formazione Primaria.

Tema trattato?

La mia ricerca è partita dal sisma del 2016 e ho messo in relazione il lavoro fatto durante il tirocinio (uno dei quattro che ho svolto nella scuola primaria e dell’infanzia) con le materie di studio del corso di laurea. L’obiettivo? Trovare una corrispondenza tra ciò che si fa e ciò che si apprende.

Quale corrispondenza hai indagato?

Ho considerato l’importanza dell’aspetto narrativo nell’insegnamento della scienza, che occupa troppo poco spazio nelle scuole. Un fenomeno naturale non è solo ciò che accade secondo la fisica, è anche narrazione, è anche un evento tangibile nella vita delle persone. Sono partita da un dato: il sisma è un’urgenza cognitiva ed emotiva, emozione e comprensione sono sempre in strettissimo rapporto e non si può ridurlo alle definizioni di epicentro, onde sismiche e propagazione.

Che cosa, di quanto hai esplorato, ti è sembrato più interessante?

Nel Gabinetto di Fisica di Urbino ho trovato gli strumenti scientifici di padre Alessandro Serpieri, astronomo, sismologo, metereologo ed educatore vissuto nell’Ottocento. Se ne serviva per le sue rilevazioni dei fenomeni tellurici. Questa scoperta mi ha aperto le porte ad un’altra scoperta.

Quale?

Entrando in contatto con i suoi studi e con il suo modus operandi ho potuto comprendere come la scienza non sia un agglomerato categoricamente fissato di leggi e prodotti, ma piuttosto una faticosa impresa storica e narrativa di spiegazione e comprensione della realtà. Nel condurre i suoi studi scientifici Serpieri ha saputo ordire una rete di collaboratori e studiosi; tra questi uno storico locale; ecco il turning point per (ri)congiungere la storia della scienza con la storia locale e le sue fonti, ovvero la narrazione di cui parlavo poco fa.

Durante il tirocinio di che cosa ti eri occupata?

Di progetti scientifici. Uno dei più significativi è stato senza dubbio quello sul galleggiamento dei corpi, progettato e vissuto con una classe seconda della scuola primaria.

Abbiamo a che fare ancora con la scienza.

Il punto nodale, al di là del singolo argomento, è porsi la domanda (da educatore) se quel che ho detto o spiegato potevo farlo in altro modo o arricchirlo con il supporto di un altro metodo.

Il punto è l’attenzione all’apprendimento.

Esatto. Ad esempio, trovandomi a riflettere sul tirocinio in vista della stesura della relazione finale, mi è venuto in soccorso Galileo Galilei. Oltre a custodire idee per piccole e significative esperienze scientifiche con materiali poveri, i suoi scritti sono un’irrinunciabile opportunità per compiere “semplici esperimenti” di e sulla lingua. Così l’approccio non è più soltanto cognitivo, ma anche emotivo, non più soltanto induttivo-deduttivo, ma transdisciplinare.

Questo nei bambini quale vantaggio produce?

È necessario accogliere le loro “curiosità naturali” e al contempo rispondere ai più o meno consci bisogni emotivo-cognitivi. Il dialogo disciplinare ci permette di familiarizzare anche con un fenomeno come il sisma che, senza dubbio, scardina sicurezze e conoscenze ed esige di essere ammesso tra le priorità di quanti si impegnano nell’educazione.

Come hai scelto Urbino?

L’Università sotto casa per me sarebbe stata un’altra, ma essere studenti significa vivere un’esperienza completa, dal punto di vista umano e formativo, non puoi farne un discorso di chilometri. Così ho scelto la Carlo Bo per la validità del suo magistero, per la città, per via del rapporto che si riesce a costruire con i docenti e perché ci sono prof che hanno fatto la storia della pedagogia in Italia. Provenivo da un liceo scientifico e non volevo perdere la pluralità di stimoli a cui ero abituata. Scienze della Formazione Primaria mi ha permesso di non abbandonare nulla, fornendomi gli strumenti per trasmettere tutto, perché – io penso – la validità di ciò che si è ricevuto si misura sulla capacità di restituirlo.

Qual è la sfida più grande per un educatore?

Saper rispondere ai bisogni e alle necessità di tutti e di ciascuno, armonizzare i vissuti e le disposizioni che compongono la classe, far sì che ognuno entri in una relazione positiva con le attività proposte.

L’insegnamento che più ti ha cambiata?

Devo citarne più d’uno. Letteratura italiana II: la professoressa Giampieretti ci ha coinvolte e condotte in un appassionante cammino di scoperta dell’universo della letteratura per l’infanzia. Davvero significativa per me e per le mie compagne di corso è stata l’esperienza vissuta alla Bologna Children’s Book Fair. Poi Sociologia dell’educazione.

Perché?

Ha cambiato il mio modo di guardare all’esperienza quotidiana. È stata una di quelle materie che, finita la lezione, alzata la penna dal foglio, ti dici “peccato!”. La sociologia ti insegna ad apprezzare la complessità di quel che accade dentro e intorno a te. Ogni fatto suscita in noi un’idea, un giudizio. La sociologia aiuta a sottoporre il nostro giudizio, la nostra idea ad un vaglio critico, per capire da che cosa è viziato il nostro ragionamento. Affrontare questa disciplina per me ha fatto la differenza: la teoria ha senso solo quando te la porti dietro nella vita. Un altro upgrade è stato il master DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento), BES (Bisogni Educativi Speciali) e Disturbi dello Sviluppo. Psicopedagogia, Metodologie Didattiche, Pedagogia speciale e Didattica dell’inclusione. Un’esperienza molto formativa ma, soprattutto, spendibile. Le lezioni sono tenute da professionisti (medici, psicologi, logopedisti, pedagogisti clinici…) che fanno dono della loro conoscenza viva e sono in grado di arrivare al contenuto, al cuore del loro lavoro, in maniera incisiva. Ognuno porta il proprio punto di vista operativo. Utilissimo!

Fuori dalle aule quali occasioni di crescita hai avuto?

Sono stata rappresentante degli studenti in Dipartimento. Una svolta, un trampolino verso l’autonomia, la consapevolezza, la fiducia in me stessa. È stato imparare che a vent’anni non puoi lamentarti e, se ti lamenti, poi hai il dovere di metterti al servizio, di proporre il cambiamento. Mi sono addentrata negli ingranaggi della governance, ho compreso quanta complessità ci sia dietro le decisioni.

Che cosa erediti dagli anni di vita universitaria?

In questi anni ho trovato nell’amicizia una famiglia. Riuscire a costruire legami così forti, fondati sulla solidarietà e la corrispondenza, per me è stata una grande sorpresa. A Urbino vive una comunità, non è per niente scontato: nella dedica della mia tesi ho scritto che Urbino è per me un’heimat (non esiste una traduzione dal tedesco che abbia lo stesso significato in italiano), la mia piccola patria dell’amore e delle amicizie.

Progetti?

L’insegnamento – attualmente sto facendo delle supplenze a scuola – è un obiettivo. Tuttavia non ho chiuso con lo studio. Sto prendendo in considerazione la possibilità di iscrivermi al corso di laurea in Sociologia e Servizio Sociale. Work in progress: mi piace vedere così il mio futuro.

Passioni?

Amo la montagna, le uscite in bici e la lettura, dal romanzo ai settimanali di politica. Ah, non perdo una puntata di Propaganda live! Dopo più di dieci anni sui campi di pallavolo, ho (felicemente) cambiato terreno – anzi, terreni – di gioco: da ormai un anno mi sono appassionata di triathlon, una triplice disciplina che ti chiede di metterti quotidianamente in gioco. Senza dubbio un’ottima palestra di vita per allenarsi al sacrificio, alla dedizione e alla perseveranza! A proposito: un grande in bocca al lupo a tutti gli amici e compagni di squadra che il prossimo fine settimana affronteranno l’Ironman di Cervia!

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