“Ci vorrà del tempo per disvelare fino in fondo il mistero di un rapporto così intenso e insieme reciproco tra una città ideale e un inventore di città”. Con questa considerazione si chiude la nota introduttiva di Stefano Boeri al lungo lavoro di ricerca che Emanuele Piccardo ha recentemente curato per approfondire un architetto e la sua opera che hanno formato e caratterizzato cento anni di storia. Oggi? Quel modello è ancora valido? E cosa può dirci? Piccardo risponde.

 

Da dove nasce il suo interesse per De Carlo?

Per un certo periodo della mia vita sono stato studente di architettura di Giancarlo De Carlo a Genova, dove seguivo le sue lezioni di Composizione architettonica I.

Una passione che negli anni ha resistito.

Sì, nel 2015 ho girato il cortometraggio L’architetto di Urbino, prodotto in collaborazione con l’Ordine degli architetti di Pesaro e Urbino e la Fondazione Ordine Architetti di Genova.

Nominare De Carlo, lo si è già capito, significa parlare di Urbino.

De Carlo, se si esclude la “cacciata” del ‘73, lavora a Urbino dal 1951 al 1994. È il critico letterario e rettore dell’Università di Urbino, Carlo Bo, a chiamarlo. Bo aveva ben chiaro il progetto politico di recupero del centro storico che avrebbe trasferito le attività universitarie nei palazzi storici. Urbino diventa così un laboratorio di sperimentazione architettonica e urbanistica.

È in quel momento che la città rinascimentale diventa città universitaria.

Quello di Bo e De Carlo è un progetto innovativo. Mentre l’Italia sta uscendo dalla seconda guerra mondiale a Urbino ci si pone il problema dei centri storici abbandonati e di come risanarli. Ho ritrovato nelle teche Rai un documento prezioso in cui Bo, siamo nel ‘66, lancia un grido di allarme al governo per salvare il centro storico dal degrado.

Quale fu la risposta?

Nel 1968 lo Stato vara la Legge n.124: Provvedimenti per la tutela del carattere artistico e storico della città di Urbino e per le opere di risanamento igienico e di interesse turistico.

Ripercorriamo le tappe di quegli anni, fin dall’arrivo di De Carlo a Urbino.

La prima cosa che fa è studiare a fondo la storia della città. Si concentra molto sulla figura di Francesco di Giorgio Martini, architetto rinascimentale esperto di fortezze militari chiamato da Federico da Montefeltro. Con questo primo approccio De Carlo adotta un metodo che poi utilizzerà anche altrove: è la lezione di Urbino che si porterà dietro a Rimini, Genova, Mazzorbo, Colletta di Castelbianco…

Che cosa segue alla fase di studio?

L’architetto genovese incide sul recupero del centro storico attraverso un linguaggio moderno e rispettoso della storia della città. È l’esempio più evidente di equilibrio tra moderno e antico.

Tra queste due “grammatiche dello spazio” c’è un dibattito che appassiona gli intellettuali.

La polemica è tra due differenti scuole: da una parte gli urbanisti che fanno capo a Giovanni Astengo e Luigi Piccinato, che utilizzano il sistema dello zoning, secondo il paradigma dell’urbanistica quantitativa. Dall’altra abbiamo De Carlo, che propone un modello urbanistico fondato sul progetto, in opposizione alla separazione tra architettura e urbanistica e alla ricostruzione tout court. È una frattura talmente profonda che lo costringerà ad allontanarsi dallo Iuav.

L’idea innovativa di De Carlo si materializza a Urbino.

Già Le Corbusier affermava che la storia va interpretata alla luce delle esigenze presenti. Coerentemente con questo, De Carlo non riproduce mai archi e colonne rinascimentali, ma aggiorna l’utilizzo di materiali come il mattone e ne inserisce di nuovi come il vetro e il cemento a vista, secondo la poetica brutalista. L’innovazione decarliana avviene inoltre nel rapporto con il paesaggio, che entra prepotentemente nelle sue architetture ma senza togliere centralità al fruitore, lo studente. Infine va sottolineata la forte connotazione espressiva degli edifici che dialoga con la preesistenza rinascimentale.

Società è una parola chiave. Lo spazio in effetti non è soltanto funzionale, ma disegna un modello sociale e di relazione.

Il Collegio del Colle, progettato tra il 1961 e il 1965, è il primo esempio italiano di struttura universitaria sul modello del MIT di Boston, concepito nel 1947 da Alvar Aalto. De Carlo ha in mente uno spazio per studenti che non si limiti alla singola cella, con un chiaro riferimento alle celle dei monaci e al Couvent de la Tourette di Le Corbusier, ma che dialoghi con il paesaggio attraverso le finestre e gli ambienti intermedi per lo studio e la socializzazione. Oggi la società è cambiata, si è verificata una sorta di miniaturizzazione della vita, che si è ridotta in ambienti ben definiti, in un rapporto soltanto visivo con il paesaggio. La camera è diventata luogo di relazione e studio per lo studente contemporaneo. Di conseguenza, come dimostra anche la ricerca condotta dal gruppo coordinato dalla professoressa Laura Baratin e formato da Alice Devecchi e Francesca Gasparetto, è cambiato l’uso dello spazio.

Se l’influenza è reciproca (le architetture possono condizionare la vita sociale e viceversa) l’uscita dall’emergenza sanitaria potrà determinare un utilizzo rinnovato dei Collegi?

De Carlo concepì gli spazi comuni a partire dall’idea di una società nella quale gli studenti, pur mantenendo una loro autonomia d’uso, avevano accesso ai servizi destinati alla collettività della comunità studentesca. In futuro non è escluso che quegli stessi spazi possano assumere una validità diversa, un nuovo significato. L’architettura è così, non è statica.

Sì è detto spesso che l’idea ispiratrice di De Carlo fosse l’anarchia. È così?

De Carlo era anarchico nella misura in cui contrastava lo Stato dei pregiudizi. Nella sua vita professionale il potere è stato un elemento di confronto costante. Eppure, e questa è la grande dote che ci ha lasciato in eredità, la sua condotta etica è stata sempre ineccepibile, opponendo resistenza alle pressioni dei costruttori. Un motivo che gli costò l’incarico da parte del Comune di Urbino nel proseguire il lavoro iniziato con la giunta Mascioli. D’altronde tra incarico del PRG, adozione e approvazione passarono sette anni e dunque gli appetiti dei costruttori spinsero via De Carlo da Urbino.

Lo abbiamo già citato: una componente importante dell’architettura di Giancarlo De Carlo è il paesaggio. Categoria, a tutt’oggi, non sempre facile da comprendere e definire e sui cui discutono anche i filosofi.

Contemporaneamente al primo piano regolatore e all’inserimento della città tra i siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO , De Carlo si è preoccupato, fin dal Piano del 1964, di salvaguardare le visuali che dal centro storico guardano alle colline circostanti. Altrettanto importante per la tutela del paesaggio fu la revisione del Piano decarliano ad opera di Leonardo Benevolo.

Oggi avere una concezione della città e del territorio così integrata è merce rara.

La vera portata innovativa del binomio Bo – De Carlo risiede nell’aver investito sui cittadini del futuro, gli studenti. Urbino è stato un centro di sperimentazione che ha saputo porsi nel solco di quella tradizione iniziata dal Duca Federico, ma senza destinarsi all’immobilità. Qui è nato un modello vincente di recupero dei centri storici finalizzato ad un progetto di investimento sull’Università molto chiaro. Da Magistero (oggi Area Scientifico – Didattica Paolo Volponi, ndr), ai Collegi, alla sede di Giurisprudenza, ritroviamo ripresi tutti i temi della città. De Carlo aveva compreso i meccanismi di funzionamento di Urbino, a tal punto da applicarli, rivisitandoli, alle “nuove architetture” dentro e fuori le mura. In tal senso l’esempio più significativo riguarda i Collegi. Qui compressioni, passaggi stretti e visuali, conducono ad improvvise aperture, proprio come accade all’interno delle mura cittadine, ma nei tempi e nei modi immaginati da De Carlo.

Questo esempio di rielaborazione continua come può diventare il punto di partenza di un nuovo rinascimento?

Occorre continuare a credere che quel modello di campus, senza eguali in Italia per forza e completezza, sia una sfida ancora valida. L’auspicio è che tutti siano coscienti che Urbino deve riaffermarsi come centro di propulsione culturale. Sono due le parole chiave: competenza e sperimentazione.

Lei ha passato in rassegna anche i carteggi di De Carlo. Qual è il ritratto “non professionale” che ci restituiscono?

L’uso che De Carlo fa della lingua italiana è segnato dalla stessa coerenza che attraversa la sua architettura. La forma non è solo quella architettonica, ma anche quella sintattica. De Carlo fu una figura a tutto tondo, architetto, scrittore, professore. Non dimentichiamo che per il Saggiatore curò la collana Struttura e forma urbana, da Le Corbusier a Kevin Lynch e che fondò la rivista spazio & società. A fronte di molti libri a sua firma, sono rare invece le pubblicazioni critiche. Negli anni Novanta Electa ha pubblicato il primo regesto delle opere redatto da Lamberto Rossi. Bisogna venire ad anni recenti per avere ricerche storico-critiche su De Carlo. Un po’ poco per un architetto apprezzato nel mondo, professore a Yale, MIT, UCLA, Cornell University, no?

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