Quando nel 1987 ho iniziato la mia carriera da ricercatrice di ruolo all’Università di Urbino – spiega la professoressa Patrizia Gaspari – non esisteva ancora il settore disciplinare della Pedagogia e della didattica speciale. Il primo incarico di insegnamento risale all’anno accademico 1989-1990. Da quel momento mi sono dedicata alla scienza dell’inclusione degli alunni con disabilità e non solo. Sono stati anni di grande cambiamento, di conquiste. Se pensiamo al percorso dei processi di integrazione/inclusione scolastica e sociale delle persone diversamente abili non sono mancate le criticità. Nell’ambito della formazione degli insegnanti di sostegno specializzati ho diretto quattro corsi. Inizialmente ero l’unica docente incardinata nel settore. Mi affiancavano due assegniste. Con il tempo si sono aggiunti validi colleghi e, anche grazie al lavoro del personale tecnico-amministrativo, è nato un vero e proprio staff direttivo, gestionale e amministrativo. Siamo partiti con 180 iscritti. Il quarto ciclo, che si è appena concluso, ne ha contati 450. Per la quinta edizione abbiamo già 2000 pre-iscrizioni soltanto per l’insegnamento della scuola secondaria di secondo grado.

Chi sono i corsisti e qual è il loro background?

Sono i futuri insegnanti specializzati nelle attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità presenti nelle scuole di ogni ordine e grado: dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado. Il background formativo è molto diversificato; se pensiamo agli insegnanti della secondaria di secondo grado sono pochi coloro che conoscono già la pedagogia, la psicologia e la sociologia perché provengono da ambiti disciplinari spesso lontani dalle scienze umane e dell’educazione come la matematica, la chimica, la fisica, il diritto…

Come avete affrontato il periodo di distanziamento sociale?

Le lezioni erano già terminate prima dell’inizio del lockdown e si sono concluse con il convegno La pedagogia speciale oggi: problemi e prospettive. Il ruolo dei professionisti della cura e dell’aiuto nel processo di inclusione scolastica e sociale. La prova finale e la discussione delle tesi sono avvenute, invece, in modalità a distanza. L’intero team docente, il personale tecnico-amministrativo e i corsisti hanno dimostrato competenza e spirito di gruppo. Sono stati 18 giorni faticosi, vissuti davanti a un monitor, ma grazie alla proficua collegialità del lavoro svolto è stato possibile portare a termine un percorso di qualità.

A che punto è il processo di inclusione scolastica in Italia?

A mio parere sono stati fatti molti passi in avanti, anche se, nonostante le recenti normative (il decreto legislativo n. 66 del 13 aprile 2017, integrato e modificato dal decreto legislativo n. 96 del 7 agosto 2019) ritengo che l’inclusione sia ancora un processo complesso e multifattoriale, un auspicabile traguardo da raggiungere. Certamente non si tratta più soltanto di una semplice utopia. Da quasi vent’anni il termine integrazione è stato gradualmente accompagnato e superato da un nuovo linguaggio riferito all’inclusione, che comprende la presa in carico e l’accompagnamento competente non solo degli studenti con disabilità, ma di una vasta gamma di alunni con DSA (legge 170/2010), cioè con dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia e con BES (Bisogni Educativi Speciali), comprendenti le categorie dello svantaggio e delle difficoltà socio-culturali, socio-relazionali, nonché i disturbi specifici dell’apprendimento ed evolutivi, ecc. Grazie al concetto di inclusione la Pedagogia e la didattica speciali sono uscite dal restrittivo confinamento delle disabilità medicalmente diagnosticate per occuparsi anche degli alunni con difficoltà non certificate di tipo comportamentale e relazionale.

Che cosa fotografano i dati?

Nell’anno scolastico 2018-2019 gli alunni con disabilità frequentanti la scuola dell’obbligo italiana sono stati poco più di 284 mila, pari al 3,3% del totale degli iscritti. Si tratta di un contingente in costante crescita, che negli ultimi 10 anni è aumentato di circa 91 mila unità. Tale incremento è imputabile sia a una maggiore riconoscibilità di alcune situazioni di deficit psico-fisico e sensoriale rispetto al passato, sia alla più tempestiva operazione di accertamento diagnostico-funzionale. Le caratteristiche e la qualità dell’offerta formativa delle singole scuole hanno forte rilevanza nel raggiungimento di un buon livello di inclusività: l’accessibilità degli spazi, la formazione permanente, la presenza e la fruibilità di tecnologie adeguate, il sostegno di figure competenti opportunamente formate giocano un ruolo fondamentale nel favorire la partecipazione di tutti e di ciascun alunno per una didattica realmente inclusiva. Attualmente sono in atto rigorosi processi di valutazione della qualità dell’inclusione scolastica per monitorare il livello di piena partecipazione raggiunto dalla persona con disabilità (e non solo) nella scuola dell’infanzia fino all’Università.

Il nuovo approccio didattico-scientifico quali cambiamenti ha prodotto nelle aule?

Patrizia Gaspari, docente di Pedagogia speciale

La domanda è molto vasta e richiederebbe tempi e spazi adeguati. Tenterò, in modo certamente non esaustivo, di citare alcuni imprescindibili aspetti. Innanzitutto, come detto in precedenza, rispetto a 10 anni fa la scuola dell’obbligo accoglie molti più studenti iscritti con situazioni di BES e DSA. Un incremento che nel percorso formativo ha finito per riguardare anche le Università. Per quanto riguarda la rivoluzione didattica richiesta dall’inclusione scolastica in classe non posso non far riferimento al necessario ricorso a processi di individualizzazione, personalizzazione, differenziazione educativo-didattica che rivelano la crescente attenzione nei confronti delle specifiche esigenze formative di tutti e di ciascun alunno. Tali cambiamenti hanno permesso il superamento della didattica tradizionale impostata sulla lezione frontale in favore di modalità più flessibili, dinamiche e partecipative, incentrate sull’attività laboratoriale, sul tutoring, sul cooperative learning, sullo scaffolding, sulla flipped classroom, sull’approccio narrativo ecc.

Un esempio di abbattimento delle barriere a scuola?

Se pensiamo alla formazione di futuri docenti specializzati finalizzata all’inclusione di alunni con disabilità sensoriali all’interno del nostro corso (IV ciclo) per le attività di sostegno didattico abbiamo previsto laboratori mirati con studenti sordi e ciechi e docenti che vivono la stessa condizione di disabilità. La loro presenza si è rivelata di grande aiuto per i nostri corsisti, che hanno avuto così l’opportunità di conoscere il mondo della sordità e, nello specifico, l’apporto fornito dalla lingua italiana dei segni (LIS).

La didattica speciale come si inserisce nei percorsi ministeriali di reclutamento degli insegnanti?

All’interno del corso di specializzazione la Pedagogia speciale e la Didattica speciale hanno un ruolo di fondamentale importanza. A mio parere la legittimazione di un’oggettiva e funzionale qualità dell’inclusione scolastica di tutti gli alunni richiede di incrementare ed estendere queste discipline nella formazione di tutti i docenti. Non si tratta di pensare soltanto a una valida formazione di base, ma di predisporre momenti di formazione ricorrente e permanente anche per i docenti già in servizio, soprattutto per quelli senza titolo di specializzazione di sostegno, senza distinzioni e separazioni. Ritengo che questo sia uno dei temi centrali del dibattito, da qualche anno infatti gli insegnanti specializzati di sostegno hanno, purtroppo, una carriera separata rispetto ai titolari di cattedra.

Questo non è un vantaggio?

Solo apparentemente. In realtà ad essere messo in discussione è il concetto stesso di inclusione. Il docente specializzato di sostegno, va ricordato, è innanzitutto un docente contitolare della classe che non può disinteressarsi delle dinamiche di insegnamento/apprendimento delle specifiche discipline e dei necessari processi di socializzazione delle conoscenze. Il rischio è di medicalizzare il lavoro dell’insegnante di sostegno o di calibrarlo esclusivamente sulla conoscenza delle differenti tipologie di deficit, potenziando le degeneri forme di delega deresponsabilizzante che relegano l’insegnante specializzato al ruolo di “angelo custode” dell’alunno con disabilità, al di fuori del gruppo di classe. Avere separato le carriere significa aver frainteso il fondamento stesso della rivoluzione culturale, politica ed educativa sottesa al processo di inclusione.

La scelta di separare le carriere quali conseguenze si porta dietro?

Esiste il rischio di una mancata inclusione per gli studenti di ogni ordine e grado di scuola ma, soprattutto, per quelli che continuano il loro percorso di studi dopo la scuola primaria. Ciò accade perché il docente di sostegno, ingabbiato nel retaggio di una visione medicalistica e assistenzialistica del proprio ruolo, vive il proprio agire professionale troppo spesso in maniera separata dal resto del contesto-classe. Nessuno nega che ci siano momenti che richiedano un percorso dedicato, mirato, differenziato. Ma tutto ciò va sempre interpretato in vista di un ricongiungimento con il lavoro comune svolto dal resto degli alunni in classe. Non deve mai venire meno il principio dell’apprendimento insieme. L’inclusione implica un lavoro collegiale e non va letta in maniera unidirezionale poiché rappresenta una preziosa risorsa anche per l’alunno “normoabile”, in quanto portatrice di una differenza che è, al tempo stesso, una ricchezza e uno stimolo. La classe non può disinteressarsi al compagno con disabilità. Il collega Dario Ianes sostiene giustamente che bisogna instaurare la dialettica della “speciale normalità”: si tratta di una normalità che si tinge del valore arricchente della specialità e di una specialità che mantiene profonde radici interconnettive col mondo degli alunni “normoabili”.

È evidente che la formazione dei docenti diventa fondamentale per la didattica e per un giudizio consapevole sulla didattica.

Investire in questo asse è fondamentale sia per l’aggiornamento e la formazione continua, il lifelong learning dei docenti (tutti) compresi quelli già in servizio, sia per arricchire il loro bagaglio teorico-pratico di conoscenze e competenze, non solo nel momento dell’ingresso nel mondo della scuola. Per quanto riguarda la qualità raggiunta dal processo di inclusione scolastica delle diversità permangono ancora alcune zone d’ombra. Se facciamo riferimento agli ostacoli/barriere che gli studenti con disabilità incontrano nella scuola secondaria di secondo grado, è molto elevata la presenza di processi di micro e macro espulsione dal contesto classe, spesso sostenuti dalle pressioni esercitate dalle famiglie di alunni con disabilità e da alcuni docenti camuffati da “terapisti”. Questi ultimi cavalcano l’onda di una illusoria scelta metodologica tecnicistico-specialistica per rispondere all’emergenza del “bisogno educativo speciale” degli alunni maggiormente in difficoltà. Paradossalmente rivolgono un obsoleto, anticostituzionale e nostalgico richiamo alle classi speciali e differenziali all’interno delle quali la persona con disabilità era sostanzialmente privata di autentici diritti di cittadinanza, partecipazione ed appartenenza. Solo sostenendo una solida formazione pedagogico-didattica possiamo parlare effettivamente di inclusione scolastica e sociale combattendo le derive del settorialismo e del segregante riduzionismo.

Prima ha introdotto due concetti: integrazione e inclusione. Di che natura è il loro rapporto?

I concetti di integrazione e inclusione ancora oggi vengono ambiguamente confusi. In realtà presentano similitudini ma, soprattutto, sostanziali differenze politiche, educative e semantiche. Si tratta di due processi complementari: di fatto non ci sarebbe inclusione senza integrazione. Quest’ultima ha aperto la strada alla possibilità di potenziare e ampliare il percorso formativo già iniziato per gli alunni diversamente abili. In Italia, già a partire dal 2000, con l’affermazione del modello ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) e dell’Index for inclusion, si è cominciato a parlare anche di alunni con disturbi specifici dell’apprendimento, difficoltà relazionali e comportamentali, svantaggi e disagi di varia natura, BES, allargando così l’orizzonte di indagine e di ricerca a persone che, anche in assenza di diagnosi medica, necessitano di una didattica su misura per essere accolti, riconosciuti e valorizzati. Se oggi possiamo ragionare di cooperative learning, peer tutoring, didattica laboratoriale, ecc. lo dobbiamo alla graduale trasformazione della contemporanea didattica inclusiva, sempre in movimento.

Possiamo supporre che la tecnologia occuperà un posto sempre più rilevante nella didattica speciale?

La tecnologia è stata di grande aiuto in un momento difficile come quello della pandemia, eppure ritengo che abbiamo bisogno di superare questa fase. La relazione educativa si nutre del con-esserci, della reciprocità dell’aver cura, di parole, gesti, esempi, contatti visivi, uditivi e corporeo-cinestesici, dell’atmosfera relazionale che si respira in classe. Vogliamo tornare ad assaporare il valore formativo della relazione educativa e della co-costruzione cognitivo-affettiva dei saperi e delle competenze. A mio parere, come afferma giustamente Umberto Galimberti, “la tecnica ci mangia l’anima” disumanizzando ogni essere umano.

Che cosa, allora, può davvero fare la differenza in futuro?

Il recupero di uno sguardo educativo “forte”, il potenziamento dello spirito critico e creativo, la “trasgressione” di accogliere la sfida delle differenze e delle diversità senza cadere nella banalizzazione di risposte uniformi e omologanti. Tutto ciò sotto il segno della mediazione e della negoziazione di risorse, linguaggi, professionalità, nel costante e necessario interscambio di esperienze realizzate e ancora da realizzare tra il mondo universitario, il contesto scolastico e il più vasto orizzonte sociale e culturale, nella imprescindibile dialettica tra educazione formale, informale e non formale. Il superamento, quindi, di una visione narcisistico-autoreferenziale per far sì che gli insegnanti (tutti) acquisiscano innovativi metodi e strumenti didattici rafforzando sensibilità e competenze sempre più flessibili e polivalenti, finalizzate a comprendere il valore della complessità dell’umana esistenza. È necessario ridurre il gap esistente tra il sapere accademico e le concrete esperienze formative e di vita che le persone con disabilità sperimentano quotidianamente a scuola, promuovere produttive logiche di contaminazione all’interno delle quali i docenti possano democraticamente crescere attivando processi di ricerca-azione in un dialogo continuativo, mai esaustivo, con le principali agenzie educativo-formative esistenti nel territorio.

 

Immagine in evidenza: Andrew Ebrahim

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