Appuntatevi questa data: mercoledì 9 marzo 2016, ore 14,30, aula Amaranto, Palazzo Battiferri. Servirà a non farsi sfuggire il workshop 
Innovazione, crescita, lavoro, consigliato a chi vuole capire il mondo, l’economia e tutto ciò che nei prossimi anni inciderà sulle vite di tutti. L’apertura dei lavori sarà del professor Giorgio Calcagnini, prorettore vicario dell’Università di Urbino. Quindi gli interventi rispetteranno questo ordine: Mario Pianta dell’Università di Urbino (L’analisi dell’innovazione nelle imprese e nei settori)
; Dario Guarascio, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e Matteo Lucchese, Istat e Università di Urbino (Innovazione, export, cicli economici); Valeria Cirillo, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (Innovazione, occupazione, qualifiche, salari); Germana Giombini e Giuseppe Travaglini, Università di Urbino (Flessibilità del lavoro e innovazione); Alessandro Sterlacchini, Università Politecnica delle Marche (La ricerca e sviluppo in Italia); Davide Castellani, University of Reading (Multinazionali e R&S nelle regioni Europee); Antonello Zanfei, Università di Urbino e Claudio Cozza, Università di Trieste (Produzione internazionale, R&S e legami con le imprese locali).

Innovazione, ovvero lavoro, ovvero crescita

Ad anticipare il keynote speech è il professor Giorgio Calcagnini. “Il rallentamento della crescita economica – dice – è legato in gran parte all’innovazione”. Poca crescita (l’Italia si assesta attorno al’1% nel 2016, mentre gli Usa crescono del 2,5%), soprattutto nel lungo periodo, è il risultato di poca innovazione. Ecco l’equazione per cui il nostro Paese arranca. “L’innovazione, soprattutto nelle medie e grandi imprese, – spiega il professor Calcagnini – è connessa alla necessità di far fronte alla concorrenza internazionale”.

Giorgio Calcagni, economista e prorettore vicario dell'Università di Urbino

Giorgio Calcagnini, economista e prorettore vicario dell’Università di Urbino

Cosa succede però se l’azienda è medio piccola, come nella stragrande maggioranza dei casi in Italia? Risposta: “Tutto diventa molto più difficile e l’innovazione, se c’è, è prevalentemente di prodotto e non riesce ad avere effetti complessivi economicamente apprezzabili”. Immaginiamo una grossa casa automobilistica, poniamo che questa riesca a trovare un materiale più resistente e di minor costo per realizzare telai. Ragionando in un’economia di scala ciò consentirebbe di creare grossi margini di guadagno, innescando un potenziale fattore di crescita su tutto l’indotto. Se la stessa cosa avvenisse in una piccola fabbrica di pentole, dove il materiale fosse ugualmente innovativo, avremmo naturalmente conseguenze positive ma molto, molto ridotte. Del cambiamento il sistema economico non si accorgerebbe. A meno che, prosegue il prorettore vicario, “l’innovazione non vada a coincidere con un’invenzione” che può avere un impatto a livello generale.

L’impresa… nonostante

Qual è la cornice di un Paese dove l’impresa innova e cresce poco ce lo dice l’ultimo rapporto della Banca mondiale, Doing Business 2016. “Si tratta – commenta il professor Calcagnini – di un’indagine che stila una classifica delle nazioni nelle quali è più facile fare impresa. L’Italia è al 45° posto, dietro l’Estonia e il Portogallo. Se si guardano poi gli indicatori che vanno a comporre questo quadro si scopre ad esempio che scende addirittura al 137° posto per quanto riguarda la tassazione. Ed in effetti la pressione fiscale, unita all’eccesso di burocrazia (tra i valori presi a riferimento c’è anche il tempo che occorre per un allaccio elettrico), sono tra i principali ostacoli all’impresa”. È l’impresa nonostante: nonostante tutti i fattori che la scoraggiano. Naturalmente se la mancata innovazione pregiudica la crescita non possono non esserci conseguenze per il lavoro. “C’è un’incidenza sulla qualità del lavoro – aggiunge Calcagnini -. A questo punto subentra anche il tema della flessibilità, che porta con sé due scuole di pensiero. L’una ritiene che una maggiore flessibilità rechi danno all’innovazione, impedendo di fatto la specializzazione del capitale umano. L’altra sostiene invece che proprio la flessibilità favorisca il trasferimento di conoscenze da una realtà all’altra”. Condizione necessaria ma non sufficiente perché queste due correnti sussistano e si faccia innovazione, è l’avere posti di lavoro che permettano di migrare da un’occupazione all’altra.

Quale innovazione?

Da questa domanda, attorno alla quale si svilupperà il workshop, discendono tante risposte che messe assieme possono essere la soluzione. “Pensare di ricavare una grande impresa da una piccola o media azienda, per avere più innovazione, è molto complicato, soprattutto in Italia. Più facile – conclude il professor Calcagnini – mettere in atto investimenti diffusi su ricerca e sviluppo, ossia investire sulle Università. C’è una geografia dell’impresa, aggregata intorno agli atenei, che spiega quanto sia importante il trasferimento di conoscenza per l’innovazione. Tra l’altro si innova anche tramite un aumento del capitale umano e la formazione. E, dobbiamo saperlo, se non c’è innovazione non c’è vero ricambio”.

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