TOP TIMES 3

Il Rettore Vilberto Stocchi commenta l’ottimo piazzamento della Carlo Bo evidenziando le difficoltà del sistema universitario nazionale.

L’Università di Urbino è tra i migliori 500 Atenei al mondo. A stabilirlo è la classifica del Times of Higher Education, divenuta negli anni punto di riferimento a livello internazionale. Gli Atenei italiani inclusi sono solo 34. Urbino rientra nella fascia compresa tra la quattrocentesima e la cinquecentesima posizione. Phil Baty, editor del magazine inglese, sottolinea così l’importanza di tale riconoscimento: “questo è il dodicesimo anno che il Times of Higher Education pubblica la classifica delle migliori Università del mondo, applicando criteri rigorosi nella valutazione delle Mission chiave degli Atenei: insegnamento, ricerca, trasferimento della conoscenza e dimensione internazionale. I risultati sono utilizzati per orientare le scelte degli studenti e delle loro famiglie, del mondo accademico, dei governi. Per l’Università di Urbino Carlo Bo essere inserita tra le 500 migliori Università del mondo è sicuramente un notevole risultato che merita di essere celebrato”. L’esito è tanto più rilevante se si considera che soltanto in Europa sono 4.000 gli Atenei, e che per arrivare al documento definitivo sono state analizzate 11 milioni di pubblicazioni scientifiche e sottoposte 11.000 schede di valutazione ai docenti.


 

rettore Stocchi1

Il Rettore dell’Università di Urbino Vilberto Stocchi

Va da sé la soddisfazione per la notizia. Al Rettore, Vilberto Stocchi, abbiamo chiesto di evidenziare i motivi di questo significativo piazzamento.

Ritengo che questo risultato, che ci vede al fianco di prestigiose Università, rappresenti la convergenza di tanti fattori. Primo fra tutti il lavoro di squadra quotidiano da parte dello staff di Ateneo. E qui mi preme menzionare il responsabile dell’Ufficio Ricerca e Relazioni Internazionali Fabrizio Maci, Roberto Rossi dell’Ufficio statistico dell’Ateneo e, in particolare, il Prorettore alla Ricerca professor Flavio Vetrano per aver predisposto i documenti richiesti sulla Mission, coordinato le attività e svolto un efficace lavoro di sintesi nel quale sono state evidenziate le eccellenze dell’Ateneo, unitamente all’impianto strategico che coniuga innovazione e tradizione.

Può aiutarci a capire in quale contesto si colloca il ranking stilato?

Dobbiamo tenere presente che le Università in Europa sono 4.000, mentre i College statunitensi 3.500. A questi dati vanno aggiunti i numeri degli altri continenti. Collocarsi nella fascia compresa tra la quattrocentesima e la cinquecentesima posizione (in questo range la graduatoria è a pari merito, ndr) rappresenta per Urbino una performance di grande valore in un contesto internazionale. Le Università italiane che compaiono nell’elenco in totale sono 34. Ciò significa che il nostro Paese ha Atenei la cui qualità è riconosciuta. Questi dati dovrebbero far riflettere il Governo sulla necessità di adeguati finanziamenti di cui il sistema universitario ha urgente bisogno.

Purtroppo dobbiamo concorrere con altre realtà ad armi impari. Solo un esempio, ma molto calzante: Harvard, con 21.000 studenti, dispone di un budget pari al 56% di tutto il nostro Fondo di Finanziamento Ordinario nazionale. Urbino con 15.000 studenti dovrebbe competere con questa prestigiosa università statunitense potendo contare soltanto su un trentesimo di risorse. Credo che riconoscimenti di stima e apprezzamento, come quello del Times of Higher Education, servano a ricordare al Governo quanto sia indispensabile investire sull’Università.

Ha usato la parola indispensabile, perché?

La ricerca rappresenta un incredibile motore per lo sviluppo di un Paese. Le sue ricadute, in ogni ambito, hanno significative implicazioni economiche e sociali. Se non prendiamo coscienza di ciò, l’Italia anziché mostrarsi competitiva in uno scenario sempre più internazionale continuerà a subire l’azione di chi sta investendo risorse maggiori per la formazione e la ricerca. Per dare sostanza alle mie affermazioni è necessario ricordare alcuni dati: la Germania ha 210.000 ricercatori e noi solo 76.930. Inoltre, negli ultimi sette anni, in Italia si è registrata una riduzione di 17.000-18.000 unità. Sempre nello stesso periodo, il sistema universitario nazionale, ha subito un calo di risorse per circa 1 miliardo di euro, pari al 15%. Un Paese che non investe nella formazione e nella ricerca è un Paese che rinuncia al proprio futuro.

DSC_6512-2La differenza quantitativa tra ricercatori attivi in Italia e quelli operanti in altri Paesi dell’Unione Europea è un dato allarmante. Quali conseguenze potrebbero derivare da uno scarto così evidente?

La domanda ne sottende alcune altre. Chi sarà più capace a intercettare i finanziamenti che arrivano dall’Europa? Chi avrà una maggiore capacità progettuale? Nonostante questo scenario davvero preoccupante, se si rapporta il numero delle pubblicazioni scientifiche al numero di ricercatori, l’Italia è di gran lunga al primo posto tra i Paesi europei. Secondo uno studio della Banca d’Italia e dell’ANVUR (Montanaro-Torrini), nel 2010 sono stati pubblicati 726 articoli ogni mille ricercatori italiani, contro i 550 del Regno Unito e i 400 circa di Francia e Germania. Questa produttività non è tuttavia sufficiente.

È necessario far capire a tutti, e in primo luogo alla politica, che è urgente dare risposte e rendere disponibili maggiori risorse economiche e di capitale umano. Se non saremo competitivi e capaci di ricerca e di innovazione diventeremo sempre più dipendenti da altri Paesi.

La significativa produttività scientifica è un dato importante.

Sì, è un dato considerevole che dimostra la vivacità e le capacità dei nostri ricercatori a livello internazionale. Oggi però siamo chiamati a competere in uno scenario sempre più globale e per questo occorre disporre anche di forze adeguate. Dal report citato, sul sistema della ricerca pubblica in Italia, è emerso che la produzione scientifica nazionale è inferiore a quella di altri Paesi. Dal 1990 sono 27.200 i progetti coordinati in Italia, 42.800 in Francia, 48.200 in Germania, 60.000 nel Regno Unito. Questi dati dimostrano che non è sufficiente essere bravi, ma che per il sistema Paese è necessario incrementare il numero complessivo dei ricercatori, evitando così, tra l’altro, la fuga dei cervelli.

Nel 2014 in Italia sono rimasti inutilizzati 4,1 miliardi di euro da fondi strutturali Ue, pari al 66% delle risorse a disposizione. Pensa siano necessari in materia interventi correttivi?

Certamente. L’Italia, per esempio, contribuisce al budget europeo per la ricerca con 11 miliardi di euro su un totale di 88 miliardi, vale a dire circa il 13%. Nell’ipotesi più ottimistica il nostro Paese sarà in grado di riprendere 7 miliardi di euro. Sappiamo già in partenza che 4 miliardi dati dall’Italia andranno a beneficio di altri Paesi. In realtà, la responsabilità di questa circostanza non può essere attribuita all’attuale Governo dal momento che la programmazione europea, come è accaduto per Horizon 2020, è stata preceduta da un lavoro di mesi di preparazione. Tuttavia, è necessario che il nostro Governo avvii urgenti iniziative a Bruxelles per evitare una situazione per noi così penalizzante. Le Università quasi mai possono presentare progetti in qualità di Lead Partner, condizione che da un lato non consente un impiego integrale dei finanziamenti e dall’altro influisce negativamente su crescita, occupazione e qualità della vita. Pertanto, credo sia necessaria un’incisiva azione strategico-politica da parte dello Stato.

TOP TIMES 2Finora ha parlato del pubblico, ma c’è anche il privato che può essere fonte di finanziamento a progetti di ricerca.

Questo è un aspetto importantissimo. Il collegamento tra imprese, Università e centri di ricerca è una via obbligata per essere davvero più competitivi come Paese. Consapevole di quanto importante sia questa stretta interazione, il nostro Ateno si è dotato di un’equipe di 15 docenti che si occupa delle attività di Terza Missione, così da creare un network con le imprese e le istituzioni del territorio finalizzato a progetti di crescita e sviluppo. Tuttavia, in Italia, in questo ambito c’è davvero molto lavoro da fare. Piuttosto che pensare alle cause del gap, è importante superarlo attraverso il confronto e la capacità di realizzare progetti congiunti. Soltanto così sarà possibile rimuovere le diffidenze e, di fatto, realizzare quel necessario lavoro di squadra. Il bene di un Paese dipende dall’impegno attento e responsabile degli attori di ogni singolo ambito che costituisce la nostra società.

Nella cultura del Paese cosa deve cambiare affinché le Università possano esercitare fino in fondo il proprio ruolo?

L’Università è il luogo dove si cresce nella conoscenza e si promuove la ricerca scientifica; dove si formano i giovani che saranno chiamati a svolgere compiti significativi nella società. Abbiamo il dovere e la responsabilità di tutelare questi luoghi di formazione, soprattutto oggi che, per i profondi mutamenti che interessano una società ormai globalizzata, la stessa formazione rappresenta una sfida davvero impegnativa.

Per queste motivazioni, è importante che la politica, le realtà produttive, le istituzioni, le famiglie e tutti i cittadini comprendano il ruolo prezioso che possono svolgere le Università per lo sviluppo del Paese: questo è davvero necessario se vogliamo pensare al futuro dei nostri giovani con fiducia e speranza.

Pin It on Pinterest

Share This