Vogliamo ricordare l’orrore della Shoah ogni giorno, per sempre. Nella Giornata internazionale in memoria delle vittime dell’Olocausto lo facciamo condividendo l’intervista a Carlotta Ferrara Degli Uberti, Professoressa Associata di Storia Contemporanea all’Università di Pisa. La conversazione con la studiosa è avvenuta nell’ambito della conferenza Memoria della Shoah e definizioni di antisemitismo, organizzata dal CUG di Uniurb – il Comitato Unico di Garanzia per le Pari Opportunità, la Valorizzazione del Benessere di Chi Lavora e contro le Discriminazioni – che si è tenuta lo scorso giovedì 25 gennaio.

 

La Professoressa Carlotta Ferrara Degli Uberti

Professoressa, il popolo ebraico sembra avere una sola colpa: quella di esistere. Perché?

È una domanda molto difficile. Mi limito qui a due considerazioni. La prima riguarda l’antichità dell’antisemitismo, le cui origini vanno fatte risalire agli inizi dell’era cristiana, ovvero a quella fase in cui il cristianesimo ha elaborato una visione negativa dell’ebraismo e degli ebrei allo scopo di affermare sé stesso e la propria differenza. Le identità – vale per gli individui e per i gruppi – si costruiscono per differenziazione, e questo processo implica quasi sempre un conflitto e una caratterizzazione negativa dell’altro. Abbiamo a che fare con una dinamica di lunghissimo periodo.

 

La seconda riguarda invece l’espressione “popolo ebraico”, che trovo sempre molto problematica perché si presta a fraintendimenti. È un’espressione che ha un ruolo importante all’interno del contesto religioso e culturale ebraico, che è stata ripresa all’interno della narrazione nazionale sionista prima e israeliana poi, e che ha un senso in varie articolazioni di un discorso antisemita. Al di fuori di questi ambiti, in ciascuno dei quali assume forme e significati diversi, è fuorviante perché evoca l’esistenza di un gruppo – un popolo – identificabile, con caratteristiche comuni, dall’antichità ai giorni nostri, dal racconto biblico a noi. Da un punto di vista storico ciò non ha senso.

“Il meglio della cultura ebraica è legato al fatto di essere dispersa, policentrica”, spiegò Primo Levi a Gad Lerner in un’intervista. È nel perimetro di questa dispersione che gli ebrei hanno costruito la propria identità?

La diaspora ebbe inizio nel 70 e.v., con la distruzione del secondo tempio, anche se bisogna ricordare che alcune comunità ebraiche – ad esempio quella di Roma – sono ancora più antiche. Da quel momento in poi gli ebrei non hanno più avuto un riferimento territoriale preciso ma sono stati – per l’appunto – dispersi in diverse parti del mondo. Questa dispersione e l’interazione costante con una grande varietà di lingue e culture sono diventate elementi centrali della costruzione identitaria. Direi anche qualcosa di più: hanno determinato l’evoluzione della stessa legge religiosa.

 

In questa lunghissima storia, uno degli eventi centrali è stata sicuramente l’emancipazione. Con questo termine si indica solitamente l’equiparazione giuridica degli ebrei agli altri cittadini, quindi la fine dei trattamenti speciali che erano stati storicamente quasi sempre di natura punitiva e discriminatoria. Nel caso italiano il raggiungimento della parificazione giuridica coincide con il processo di unificazione nazionale, il che rafforzò in molti ebrei l’entusiasmo patriottico.

A Urbino la politica dei Montefeltro dimostrava una certa apertura rispetto alla comunità ebraica locale, almeno fino alla creazione del Ghetto nel 1633. Le chiedo una riflessione su questo luogo di emarginazione, di cui si è occupata nel 2021 curando la mostra Oltre il ghetto. Dentro e fuori.

I ghetti sono stati un’invenzione italiana. Ha esordito Venezia nel 1516 e nel 1555 la bolla papale Cum nimis absurdum ha inaugurato la stagione dei ghetti nei territori pontifici e, in particolare, a Roma. Per capire il provvedimento papale, bisogna ricordare ciò che aveva scritto Agostino di Ippona a proposito della convivenza fra ebrei e cristiani. Occorreva, a suo parere, permettere agli ebrei di vivere all’interno delle società cristiane ma in una condizione di separazione e subordinazione, perché i cristiani potessero sempre ricordare cosa accade a chi è punito eternamente da Dio.

 

Il ghetto è la realizzazione di questa idea. Una ormai ricca produzione storiografica ci ha però mostrato che questi quartieri chiusi non furono solo luoghi di isolamento e deprivazione. All’interno dei ghetti si svolgeva una vita ebraica culturalmente e socialmente variegata, che raggiunse anche vette elevate dal punto di vista artistico e intellettuale. I confini, inoltre, erano molto meno rigidi di quanto si possa pensare: gli incontri con i cristiani erano all’ordine del giorno e lungi dall’essere solo sgradevoli o violenti. Tra Cinque e Settecento sono numerosi gli esempi di collaborazione economica e intellettuale fra ebrei e cristiani, e non mancano testimonianze che ci parlano di una socialità condivisa.

Secondo un recente sondaggio di YouGov/The Economist, per un giovane americano su cinque l’Olocausto non è mai avvenuto. In Europa la situazione non è molto diversa. La memoria della Shoah è sempre troppo corta?

La domanda è particolarmente interessante in questi giorni in cui commemoriamo in vario modo il Giorno della Memoria, che in Italia è stato istituito nel 2000. La prima osservazione che sorge spontanea è che, evidentemente, l’overdose di memoria a cui siamo stati sottoposti a partire dagli anni Novanta del Novecento e poi con le annuali iniziative per il 27 gennaio non è servita, o forse è stata addirittura controproducente. Non è questo il luogo per un’analisi complessa, ma direi senz’altro che non è mancata la memoria. È, piuttosto, mancata la storia. È stata carente la costruzione e diffusione di una consapevolezza storica che permettesse di dare un senso a quella memoria, e di renderla operativa sul piano cognitivo e sul piano dello sviluppo di una coscienza civile.

 

In Italia gli storici e le storiche hanno lavorato moltissimo, in questi decenni, sul tema delle responsabilità italiane nella persecuzione e nella deportazione, sulle radici autoctone dell’antisemitismo fascista, sulla decostruzione del mito del bravo italiano. Questi risultati sono rimasti però in larghissima parte sconosciuti al grande pubblico e non hanno influenzato le iniziative memoriali, che ancora troppo spesso ripropongono in maniera de-storicizzata lo stereotipo dei cattivi tedeschi e degli italiani brava gente.

L’antisemitismo, nelle sue diverse definizioni ed espressioni, oggi riaccende la paura. È una sorta di bomba a orologeria che non riusciamo a disinnescare.

L’antisemitismo, come dicevo in apertura, ha alle spalle una storia millenaria che ha visto il fenomeno subire varie metamorfosi ma che presenta anche sorprendenti elementi di continuità. È molto ben radicato nella nostra cultura. Dagli anni Sessanta, e ancor più dagli anni Ottanta del Novecento, viene riattivato e conosce picchi di diffusione e virulenza in corrispondenza con le fasi più violente del conflitto in Israele-Palestina. Il periodo che stiamo vivendo ne è una testimonianza e genera grande preoccupazione. Gli attacchi, verbali e non solo, sono cresciuti esponenzialmente dallo scorso ottobre a oggi al punto che in tanti campus universitari gli studenti ebrei si sentono in pericolo.

 

Uno degli elementi generativi di questo antisemitismo, non sempre consapevole, che colpisce gli ebrei della diaspora è la sovrapposizione fra ebrei e Israele, fra ebrei e israeliani. Si presuppone spesso un’identità fra questi due termini, un’identificazione pressoché completa, che porta alcune critiche di per sé legittime all’operato di Israele a sconfinare nell’antisemitismo. Questo è possibile anche a causa della sopravvivenza di un antisemitismo di fondo, diffuso, che con Israele non ha nulla a che vedere ma che trova in questi momenti di conflitto un appiglio per esprimersi, una legittimazione.

 

 

 

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