Pubblichiamo oggi la seconda parte del discorso A casa del Duca tenuto da Carlo Bo nella Sala del Trono di Palazzo ducale il 20 giugno 1982, in apertura delle celebrazioni per il quinto centenario della morte di Federico da Montefeltro. Stampato per la prima volta nella collana “il nuovo Leopardi”, il testo è stato successivamente edito in Parole sulla città dell’anima, a cura di G. Santini, Collana “I luoghi e la storia”, Comune di Urbino 1997.
Le parole di Bo si affidano alla lettura attoriale di Angelo Trezza, avvocato cassazionista da sempre animato dalla passione per il teatro. Allievo di Giorgio Albertazzi, ha attraversato le scene come attore e dramaturg, orientando la sua personalissima ricerca verso la trasposizione, la riduzione e l’interpretazione di testi letterari: scritti teatrali, narrativi, poetici, ma anche scritti critici.
Partner del progetto internazionale Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito – ideato e coordinato da Tiziana Mattioli, docente di Letteratura italiana dell’Ateneo urbinate, e promosso nell’ambito del Prorettorato allo Sviluppo di Partenariati Strategici Nazionali e Internazionali – Angelo Trezza, nell’intervista che segue, riflette sulla mise-en-scène del testo di Bo.
Per ascoltare e leggere i testi è possibile accedere al sito dedicato al progetto cliccando su eventi.uniurb.it/urbinate-per-sempre
Avvocato Trezza, partecipa al progetto e torna a Urbino dove ha conseguito la seconda e la terza laurea. Anche lei può dirsi Urbinate per sempre?
Ho frequentato questa città straordinaria per oltre vent’anni per cui certamente anch’io mi sento Urbinate per sempre. Ho conosciuto Urbino per via delle mie passioni: il teatro – tant’è che qui mi sono laureato in Storia del teatro – e un’inesausta indagine intorno al linguaggio che mi ha portato alla laurea in Lettere moderne. Per cui la partecipazione a questo progetto significa per me un’emozione fortissima, un’occasione inaspettata che devo a Tiziana Mattioli, alla quale va tutta la mia gratitudine.
L’esperienza della lettura e anche dell’ascolto delle molte pagine memorabili di Carlo Bo che il progetto raccoglie e divulga mi ha, senza dubbio, permesso di guardare certi luoghi di Urbino da una prospettiva nuova e di approfondire la vicenda, simile per potenza generativa, di due grandi protagonisti della nostra letteratura e della nostra storia: Bo stesso che è stato anche “genitore” dell’Ateneo di Urbino e Federico da Montefeltro che è stato anche “genitore” del Palazzo Ducale.
Un luogo di Urbino osservato da questa prospettiva nuova.
Oggi ho come l’impressione, ad esempio, che il Palazzo del Duca abbia assunto una diversa fisionomia. Le parole, come si sa, hanno il potere di rimodellare la realtà, evidentemente quelle di Bo sono riuscite, attraverso il filtro delle emozioni, a costruire in una forma nuova gli spazi, restituendo immagini di pura poesia che altrimenti sarebbero rimaste precluse nell’attraversamento del Palazzo.
A casa del Duca è un testo attraversato da un respiro di teatro?
La scrittura di Bo è una scrittura complessa dentro la quale ho potuto intravedere certamente una grande forza evocativa e, al tempo stesso, una certa timidezza nel portare in scena l’opera del Duca. Perché di questo si tratta: Bo, indubitabilmente, fa il tentativo di mettere in scena la costruzione del Palazzo Ducale e riesce bene, in una maniera molto intima, a comporne il prezioso mosaico, a riempire volumi all’apparenza vuoti, portando intorno e dentro le architetture il soffio della vita. Per queste ragioni lo considero uno scritto di respiro fortemente teatrale.
Immagino che per lei la lettura ad alta voce sia anche esperienza della scena.
Certamente. Durante la lettura, pur nella stasi dell’atteggiamento c’è, incredibilmente, dell’azione. Il corpo, infatti, patisce o gioisce a seconda di quanto legge. Ed è attraverso l’azione del corpo, della respirazione e della concentrazione che le parole in lettura sgorgano in qualcosa che è diverso dal loro starsene là, stese sulla carta. Per cui nella lettura ad alta voce c’è molto teatro.
Ha tenuto per dieci anni il laboratorio di “Oralità e scrittura” nell’ambito della Facoltà di Scienze della formazione di Uniurb. Posso chiederle una riflessione sul rapporto tra oralità e scrittura letteraria?
Sì, nell’ambito della stessa Facoltà ho tenuto per lungo tempo anche il corso di Letteratura italiana. Entrambe sono state esperienze per me formidabili.
In merito al rapporto tra oralità e scrittura, credo sia necessario considerare che noi nasciamo “orali”, che siamo conformati per trasmettere tra di noi per mezzo di una voce alta e libera.
La scrittura arriva in tempi relativamente recenti della storia del mondo e quando si impone le cose cambiano, e si crea uno scarto molto forte tra ciò che eravamo nella dimensione di quel prima interamente orale e quello che siamo diventati scrivendo.
E proprio su quel gap si è concentrata l’indagine che ha coinvolto gli studenti dei laboratori del corso, per riflettere sullo spirito umano, sul nostro essere così come siamo. Perché noi siamo le parole che diciamo, siamo i pensieri che formuliamo attraverso le parole che diciamo, siamo la memoria che componiamo attraverso i pensieri.
Qual è il senso delle cose dopo Carlo Bo?
Dopo la sua scomparsa si è sentita una mancanza, e forse da allora abbiamo cominciato a riflettere sul perché avesse voluto donare quel grande patrimonio emotivo e di impegno alla città di Urbino e all’Università. È stato davvero l’inventore di un mondo che diversamente, forse, non sarebbe mai stato illuminato e mai portato alla ribalta.
E ha dato a tutti noi la possibilità di riflettere sulla letteratura e sulla poesia in particolare che, come si sa, è semplice ed è difficile; sta nel cuore di tutti gli uomini – come dice Ungaretti – eppure, se non si posseggono gli strumenti per poterla recepire e trattenere, sfugge. Bo, credo ci abbia fornito strumenti per ricercare entro il nostro spirito e il nostro animo il luogo e lo spazio per poterla trattenere.