Dopo la laurea in Medicina e Chirurgia a Padova, Paolo Crepet ha frequentato il corso di laurea in Sociologia di Uniurb, laureandosi nel 1980. Sono tanti i ricordi che affiorano tra le righe dell’intervista al noto psichiatra, in larga misura legati alle persone che ha incontrato a Urbino durante un’esperienza di studio e di vita che ama definire “avventurosa e parecchio rock”.
Abbiamo incontrato il Professor Crepet di recente, in occasione di una conferenza organizzata dall’Associazione Il Bramante Odv di Fermignano.
Professor Crepet, quando ha deciso di integrare il suo curriculum con una laurea in Sociologia perché ha scelto l’Università di Urbino?
Banalmente perché all’epoca le Facoltà di Sociologia importanti erano due: una si trovava a Urbino e l’altra a Trento. Io abitavo ad Arezzo e quindi ho optato per la soluzione più comoda. A ripensarci, sono veramente contento di aver vissuto quegli anni bellissimi a Urbino.
Suo nonno, che si è diplomato all’Accademia di Belle Arti, le ha mai parlato della città?
Mio nonno si è diplomato all’Accademia di Belle Arti e ha insegnato a quella che allora si chiamava Scuola delle Arti Minori e che poi è diventata la Scuola del Libro. Con mia nonna ha abitato a Urbino per diversi anni. Tra le altre cose, faceva il ceramista, sapeva fare tutto, anche rilegare i libri.
Diceva sempre: “Urbino è la città in cui le galline hanno le mutande”. Bellissimo, rende l’idea della topografia del luogo, del grado di ripidità e di inclinazione delle stradine. In effetti, senza protezione le uova rotolerebbero giù per i vicoli, in discesa.
Com’è stato studiare Sociologia a Urbino?
Ero già laureato in Medicina quando mi sono iscritto al corso di laurea in Sociologia, quindi ero più grande della media dei ragazzi dell’epoca e non ho fatto la vita universitaria che facevano quelli che studiavano e basta. Lavoravo all’ospedale psichiatrico di Arezzo per cui venivo a Urbino e seguivo le lezioni che mi interessavano. All’epoca, in Facoltà c’era il Professor Giuseppe Abbatecola con cui mi sono laureato, c’era Letizia Comba, Paolo Fabbri importante semiologo, insomma tanta gente di grandissimo interesse, un bel nucleo di intellettuali.
E ricordo di essermi laureato nello stesso giorno, non so se mezz’ora prima o mezz’ora dopo, in cui si è laureato un signore che era un pochino più vecchio di me e che qualche tempo dopo ho scoperto essere un prete, e poi Monsignore. Parlo di Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, oggi ai vertici del Vaticano. Ogni tanto ci incontriamo e ricordiamo quella bellissima giornata a Urbino…
Com’è Urbino nel suo ricordo… Ci sono luoghi della città ai quali è particolarmente legato?
Urbino è straordinaria, tutta. Io trascorrevo molto tempo nella sede – che era stata da poco restaurata – della Facoltà di Magistero dove si tenevano le lezioni del corso di laurea in Sociologia. Era una nuova, imponente struttura ripensata dal grande architetto Giancarlo De Carlo su mandato di Carlo Bo. Un’opera frutto di un’illuminazione formidabile che riusciva a creare una continuità tra presente e passato, tra paesaggio e architettura e incastonava le aule in spazi dedicati alla partecipazione, alla collettività e all’incontro. Magnifico. Ma la traccia di Urbino nella mia memoria si lega in particolare alle persone…
Sblocchiamo un ricordo?
Un episodio di quegli anni che non dimentico si lega a un signore molto gentile dell’amministrazione dell’Università che mi ha aiutato in un momento difficile. Era il 31 dicembre – di quale anno non saprei dire – e mi ricordai all’improvviso di non aver pagato le tasse universitarie. All’epoca non c’erano i telefonini, quindi chiamai l’ufficio e per fortuna mi rispose questa persona. Mi disse: “hai pagato?”. Gli risposi: “no, ma entro quale giorno devo corrispondere questi soldi?”. Continuò: “entro stamattina!”.
Allora presi la mia Citroën dell’epoca e partii da Arezzo attraversando il passo di Bocca Trabaria e, mentre nevicava come Dio la mandava, arrivai a Urbino. La città era completamente imbiancata, raggiunsi il posto, pagai, firmai un documento fuori tempo massimo e ringraziai molto quest’uomo per avermi aspettato al di là dell’orario d’ufficio. Mi fece un piacere veramente grande, evitando che perdessi l’anno. È un gesto che non dimentico.
Volendo citare Bruce Springsteen, che lei ama: Born to run tra la Toscana e le Marche!
Non avevo una lira, venivo qui da Arezzo con una Citroën 2CV che sul tetto aveva una specie di canadese. Avevo chiesto a un fabbro di costruire una piattaforma da fissare sul tetto della macchina e, sopra questa tavola, gli feci installare una tenda nella quale dormivo.
Una volta arrivai a Urbino che c’era la nebbia e trovai il parcheggio dove mi fermavo di solito stranamente vuoto, completamente vuoto. Mi fermai lì per passarci la notte e la mattina all’alba fui svegliato da un grande applauso: misi fuori la testa e mi resi conto di aver parcheggiato nel bel mezzo del mercato! Insomma, a Urbino ho vissuto una vita anche avventurosa, parecchio rock, devo dire.
Un giovane, oggi, a quale riflessione deve affidarsi per scegliere il percorso universitario?
Le cose che piacciono si sentono, sono i desideri che entusiasmano e che bisogna volere e coltivare per avere una visione del proprio futuro. L’Università la devi fare per premiare la tua passione. Se un giovane si iscrive a un corso di laurea tanto per dare retta a papà e mamma, e per farsi tre o quattro anni in bel posto dove ci sono un sacco di altri ragazzi e ci si diverte tanto, fa una scelta fallimentare.
Il divertimento è importante, ci mancherebbe: io mi sono molto divertito a Urbino, però studiavo materie e argomenti da cui ero conquistato. C’era qualcuno che mi diceva: “ma sei già laureato perché perdi tempo?”. E io rispondevo che mi interessava studiare Sociologia, che mi piaceva veramente e che volevo laurearmi non in dieci o dodici anni, ma negli anni in cui il corso effettivamente durava. E così ho fatto: sei anni ho impiegato per Medicina, quattro anni per Sociologia, quattro per la specializzazione. Mi sono fidato del mio istinto e ho studiato con grande determinazione per raggiungere il mio obiettivo.
Certo, sarebbe anche auspicabile che gli insegnanti aiutassero i giovani a riconoscere e a sviluppare il proprio potenziale, ad avere fiducia nel proprio talento per sostenerli nella scelta degli studi successivi e, soprattutto, nella costruzione del percorso di crescita.
Bisognerebbe fare e seguire “Lezioni di sogni”…
Maria Montessori diceva che tutte le bambine e tutti i bambini hanno un talento, bisogna solo aiutarli a tirarlo fuori. Il punto è che non lo tiriamo fuori mettendo loro in mano un tablet e, più tardi, non lo tireranno fuori i followers che conquisteranno su Instagram, ma a farlo emergere saranno i sentimenti, le passioni, le emozioni, non l’omologazione, ma l’unicità di quello che questi ragazzi e ragazze sono.
E trovato il talento, il sogno poi costa fatica. Quindi ai giovani dico che è difficile, ma bisogna provarci e provarci ancora, anche cadendo, senza rinunciare, perché le sconfitte servono. Non è facile, ma perché dovrebbe esserlo.