Nella “Giornata Internazionale per le Donne e le Ragazze nella Scienza” Tania Vanzolini, ex studentessa Uniurb, racconta la sua passione per la ricerca scientifica. Laurea in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche, PhD in Scienze della Vita, Salute e Biotecnologie, oggi Tania lavora come ricercatrice nell’ambito dell’ormai noto “ecosistema Vitality“. Un ampio progetto per l’innovazione, la digitalizzazione e la sostenibilità economica nel Centro Italia che coinvolge Università, enti di ricerca ed enti privati di Marche, Abruzzo e Umbria, finanziato dal PNRR con un importo totale di 120.647.127,07.

 

Tania, parliamo subito dei tuoi studi più recenti nell’ambito del progetto Vitality. Di quale linea di ricerca ti occupi?

Sono entrata a far parte del progetto Vitality solo di recente, per la precisione il 12 giugno del 2023! Nell’ambito del Work Package 2, Innovative biologics for the treatment of unmet medical needs in rare metabolic disorders and oncology, ho la possibilità di continuare a seguire una linea di ricerca che avevo avviato durante il dottorato e che sento appartenermi fortemente.

 

In sostanza, mi occupo di sviluppo e caratterizzazione di proteine ricombinanti, in particolare di anticorpi monoclonali ed enzimi, e condivido col mio gruppo di lavoro l’obiettivo di realizzare una piattaforma dedicata allo sviluppo di farmaci biologici di ultima generazione per il trattamento di disturbi metabolici rari, di malattie oncologiche e, potenzialmente, di qualsiasi patologia rispetto alla quale si voglia fare ricerca.

 

Sono molto orgogliosa di far parte di questo hub scientifico, che coinvolge tre Università, dieci aziende, e diverse organizzazioni di pazienti, e di dare il mio contributo partecipando a uno dei progetti di cui si compone. Ecco, io credo che l’opportunità grandissima di collaborare internamente, tra gruppi di ricerca Uniurb, e anche di confrontarci sistematicamente con realtà esterne ci porterà a raggiungere importanti risultati.

Cosa significa per te fare ricerca?

Te lo dico così, senza filtri e senza esitazione, significa aiutare gli altri, ma a modo mio. Potrei studiare per anni anche solo una molecola, perché pensare che questa, un giorno, potrà diventare farmaco e salvare anche solo una vita, dà un significato a tutto ciò che faccio.

 

Il fine ultimo è aiutare gli altri e cercare di “risolvere problemi” – che, tra l’altro, non sempre si avvera solo perché lo vogliamo intensamente – quindi ragionandoci un po’ su, ti dico che ricerca per me significa anche, e prima, sviluppare conoscenza e consapevolezza rispetto alle potenzialità e agli strumenti che abbiamo e che dobbiamo usare in quanto custodi della vita umana che lavorano con passione e impegno all’interno di laboratori.

Quando hai scoperto questa passione?

Alle superiori ho frequentato il liceo linguistico con la consapevolezza che le lingue sarebbero state non un fine ultimo, ma un mezzo. Tra l’altro, in quegli stessi anni ho cominciato ad amare la chimica grazie a una fantastica docente che insegnava la materia con una passione sconfinata. La conseguenza è stata che dopo il diploma mi sono iscritta al corso di laurea di Uniurb in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche.

 

Certo, subito dopo l’immatricolazione continuavo a ripetermi: “avrò fatto la scelta giusta, è davvero questa la mia strada?”. Fino al giorno in cui ho seguito la lezione pratica di Analisi dei farmaci I, sono entrata per la prima volta in un laboratorio e la mia risposta a quelle domande è stata un enorme, gigantesco sì! Credimi, ho sentito di essere nel posto giusto, in quello che Carlo Bo avrebbe chiamato “luogo dell’anima”.

Questa nuova consapevolezza ha cambiato la tua vita?

Sì. Da quel momento in poi è cambiata la percezione di me e delle cose che avevo intorno. Ho cercato di dare e di fare il massimo non solo per tagliare il traguardo della laurea, ma perché volevo raggiungere un obiettivo molto definito. Ho sentito proprio di aver trovato lo scopo della vita e una nuova forza che ha riempito di senso tutti i miei “ce la posso fare”.

Hai dovuto fare i conti con lo stereotipo per il quale le donne sono meno inclini alle discipline scientifico-tecnologiche?

Fortunatamente ho sempre avuto intorno persone intelligenti e libere da preconcetti, che non hanno mai condizionato le mie scelte. A Urbino non ho percepito discriminazioni di questa natura, tant’è che il laboratorio in cui lavoro è popolato per un 70%, circa, da donne. Negli anni in cui ho studiato CTF sono sempre stata incoraggiata dai professori e dalle docenti, tant’è che finito il quarto anno, grazie al Professor Luca Casettari, ho fatto una bellissima esperienza di studio e ricerca all’estero. Ma intendo estero-estero: all’Università di Hong Kong!

 

Il Professore mi ha sempre sostenuto nel percorso e là ho conosciuto la Professoressa Jenny Lam che è stata, ed è tuttora, per me, un fondamentale esempio di donna ricercatrice da cui traggo ispirazione. Anche durante gli anni del dottorato di ricerca in Scienze della Vita, Salute e Biotecnologie, il Professor Mauro Magnani ha fortemente creduto nelle mie capacità spingendomi a dare sempre il meglio.

 

Detto questo, quando leggo, quando mi informo, mi rendo conto che il problema esiste e va risolto. Sono consapevole che ancora oggi, in Italia e all’estero, ci sono donne costrette a scegliere tra la ricerca e la maternità, per fare solo un esempio, ma intorno vedo tante mamme più o meno della mia età che non sono mai state lasciate sole, che godono degli stessi diritti dei colleghi uomini e per questo: chapeau ai professori e alla nostra Università.

L’esperimento che ti ha fatto provare l’emozione più grande?

Il primo esperimento che ho condotto tutto da sola durante il dottorato. All’inizio lavoravo al progetto con un co-tutor che, piano piano, mi ha dato fiducia e mi ha lasciato caratterizzare l’anticorpo in completa autonomia. Non puoi immaginare la soddisfazione: gioia pura, avevo le lacrime agli occhi e tanta carica addosso!

 

È stato un po’ come cambiare le pile. Procedevo da qualche tempo per inerzia dovuta a risultati non ottimali – come tante volte accade nella ricerca – poi ad un certo punto mi sono resa conto di quello che stava succedendo e bum, esplosione di entusiasmo e via con l’esperimento successivo!

In effetti, fare ricerca significa anche confrontarsi ogni giorno con il senso del limite.

Sì. Il limite è un insegnante un po’ severo, talvolta è un tormento, ma talvolta diventa una fortuna perché insegna la pazienza, insegna a fare i conti con l’etica, e anche con il senso dell’inevitabile fine di tutte le vite che non sarà possibile salvare. È un po’ come il fallimento che però dobbiamo imparare a considerare come opportunità per affinare le capacità di ragionamento, per aggirare l’ostacolo attraverso la creatività e non fermarci mai di fronte alle difficoltà.

Come e dove immagini il tuo futuro professionale?

Il mio futuro professionale non può prescindere dalla ricerca, e questa è una certezza. Poi se sarà in una Università o nel settore ricerca e sviluppo di un’azienda non saprei dire. Mi piacerebbe rimanere nell’ambito accademico perché avrei l’opportunità grandiosa di insegnare, di rinnovare ogni giorno il mio entusiasmo e di poterlo trasmettere ai giovani, ma non mi pongo limiti.

 

Mentre lavoravo, un giorno, mi sono chiesta: ma se subissi l’amputazione delle mani, cosa potrei fare, quale altra professione potrei valutare? Indovina quale risposta mi sono data? Supervisionerei la ricerca perché, in fondo, fare scienza significa anche avere idee innovative e guidare le mani di qualcun altro. A questo punto mi sembra chiaro: non esistono alternative, la ricerca scientifica è il mio futuro, a qualunque costo!

 

 

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