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Martedì 22 ottobre 2024, il Rettore Giorgio Calcagnini, ha conferito il Dottorato di Ricerca Honoris Causa in Global Studies: Economy, Society and Law a Josep Borrell, Alto Rappresentante UE per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione Europea. «Questo riconoscimento – ha detto il Magnifico aprendo la cerimonia – premia una delle personalità più capaci del panorama politico-istituzionale internazionale, dotata degli strumenti interpretativi per l’analisi e la comprensione dei meccanismi dei processi di globalizzazione. Il dottor Borrell è il fautore più strenuo di un’idea piena di integrazione della nostra Europa».
Leggendo la laudatio, il Professor Antonello Zanfei, Coordinatore del dottorato ha aggiunto: «È un evento straordinario, non solo perché è la prima volta che il nostro Ateneo conferisce un dottorato honoris causa, ma anche perché palesa la crescente attenzione che l’Università di Urbino riserva alla ricerca. In questo specifico caso, mette anche in luce l’importanza che la nostra Istituzione assegna a temi di grande rilevanza e attualità, fra cui spiccano le sfide che affronta il processo di integrazione europea in un contesto di crescenti tensioni sia internamente all’Unione, sia su scala globale».
Ricevuta la pergamena, l’Alto Rappresentante ha pronunciato la lectio magistralis “The political momentum of Europe: between Hamilton and Demostenes”, rendendo omaggio alla città di Urbino. «Sono profondamente onorato – ha esordito – di ricevere il diploma di Dottorato Honoris Causa in questa città, così carica di storia e di significato politico e culturale per l’Italia e per l’Europa. Non potrei pensare ad un luogo più appropriato per un riconoscimento così prestigioso, per me, che ho sempre considerato l’Italia la mia patria di elezione».
Al termine della cerimonia il Vicepresidente Borrell ha rilasciato un’intervista ai microfoni di Uniamo.
Dottor Borrell, felice di essere a Urbino?
È la prima volta che vengo ad Urbino, eppure l’ho scoperta da bambino quando leggevo libri sulla storia dell’Italia medievale e sul Duca di Montefeltro. Credo di aver conosciuto questa città ancor prima di visitarla. Non è facile raggiungerla, perché i collegamenti sono poco agevoli, ma è un grande piacere essere in un luogo che ha mantenuto le sue caratteristiche, la sua geografia, la sua fisionomia urbana, esattamente com’era cinquecento o seicento anni fa.
Perché ha scelto come riferimenti della sua lectio Alexander Hamilton e Demostene?
Perché credo che rappresentino due periodi storici diversi: Demostene, l’antichità greca, e Hamilton, l’indipendenza Americana. Sono molto distanti geograficamente e nei secoli, ma penso che entrambi rappresentino alcune delle sfide che gli europei stanno affrontando oggi. Hamilton ha creato il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti accorpando i singoli debiti dei diversi Stati confederati, e creando un debito e tasse comuni per ripagare il debito stesso. Ha costruito un forte legame rendendo possibile il passaggio dalla confederazione a una federazione. In questo modo si è creato uno Stato ed è stata una storia di successo.
Demostene, al contrario, non incarnò una storia di successo. Lui avvertì i suoi concittadini di un grande pericolo: Sparta era una potenza considerevole, molto aggressiva, stava radunando un forte esercito, rappresentava una minaccia esistenziale alla quale avrebbero dovuto reagire. Gli ateniesi, però, non considerarono il problema, non fecero alcunché. Demostene si suicidò (e Atene fu occupata da Sparta n.d.r.). Questo è l’esempio di un significativo fallimento. Una storia di successo e una di fallimento, perché in un caso le persone furono capaci di dare una risposta e nell’altro no. E penso che entrambi i casi rappresentino un buon riferimento storico per gli europei, per comprendere come affrontare le sfide attuali.
Esiste in Europa un’identità comune tale da sollecitare politiche in grado di contrastare autoritarismi esterni e divergenze interne?
Non abbastanza. In Europa siamo stati capaci di superare l’antagonismo tra diverse identità. Gli europei, i giovani, oggi hanno superato l’idea della guerra e questa è un’ottima notizia. Non abbiamo, però, ancora creato un’identità comune. Se vai in Cina e le persone ti chiedono da dove vieni, tu non dirai dall’Europa, non dirai da Urbino, dirai dall’Italia. La stessa cosa accade a me: io sono spagnolo, tu italiano, tedesco, francese. Noi non siamo ancora europei. Le persone americane non dicono: vengo dal Nevada, vengo dalla Florida, dicono vengo dagli Stati Uniti, perché hanno costruito un’identità comune ed è questo che la generazione futura deve fare.
Richiederà tempo, ma la creazione di un’identità europea non comporterà l’abolizione delle nostre identità nazionali. Avremo diverse identità: io vengo dalla Catalogna, sono catalano, vengo dalla Spagna, sono spagnolo, vengo dall’Europa, sono europeo. Il giorno in cui gli europei saranno in grado di riconoscersi come tali – condividendo la stessa cultura, le stesse preoccupazioni e comprendendo il mondo per quello che è, non attraverso il filtro delle diverse radici politiche, storiche, culturali, ma perché hanno lo stesso pensiero strategico, guardando al futuro non guardando al passato – allora sarà creata l’identità europea. Per arrivare a questo abbiamo bisogno di molta educazione politica. Dobbiamo attribuire meno colpe a Bruxelles, dicendo «ah Bruxelles sta facendo …». Chi è Bruxelles? Bruxelles siamo tutti noi insieme. Fare educazione politica significa, per i leader europei, creare un pensiero comune, che ancora non abbiamo.
Ucraina, Gaza. L’Unione Europea ha compreso fino in fondo i rischi che i due conflitti in corso comportano, e quali azioni dovrebbe mettere in campo per arginarne le conseguenze?
L’Unione Europea è un gruppo di Stati. L’Unione Europea non è uno Stato. Quando si parla di politica estera, quando si parla di difesa, entrano in campo le politiche di tutti gli Stati membri, che qualche volta coincidono e altre volte no. Alcune volte siamo d’accordo e altre volte non lo siamo. Nel caso della guerra avviata dalla Russia in Ucraina c’è stata una grande unità nel sostenere l’Ucraina. Oggi emergono delle differenze, ma possiamo dire che siamo stati fortemente uniti nel destinare risorse a supporto dell’Ucraina, economiche e militari. Non siamo stati uniti di fronte alla guerra a Gaza. Alcuni Stati membri supportano con decisione il diritto di Israele a difendersi, altri credono che questo diritto abbia dei limiti. Tutti comprendono che ha dei limiti. Questa, però, è teoria. Nella pratica alcuni puntano ai limiti, altri non lo fanno. E questo è ciò che non ci ha reso rilevanti come avremmo potuto essere.
Quando andiamo alle Nazioni Unite votiamo all’Assemblea Generale in modi diversi, alcuni supportando, altri astenendosi e altri votando contro: non c’è una voce dell’Europa. C’è una voce europea per il supporto umanitario, per la richiesta di un cessate il fuoco, ma non c’è abbastanza impegno nella ricerca di una soluzione politica. Questo perché abbiamo approcci completamente differenti, radicati nella nostra storia. Alcuni Stati membri sentono di dover supportare Israele in ragione dell’Olocausto, di ciò che è successo agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Altri si sentono più preoccupati per il destino dei palestinesi. Dobbiamo lavorare per la sicurezza di Israele, che ha il diritto di esistere. Al contempo, dobbiamo assicurare ai palestinesi – che allo stesso modo hanno diritto ad esistere – un supporto nel processo di costruzione di uno Stato palestinese, su cui tutti concordano, ancora una volta, in teoria. Perché nella pratica, quando si tratta di implementarlo concretamente appare evidente un altro livello di impegno.