Martedì 11 febbraio, nell’Aula Magna di Palazzo Battiferri, Massimo Cacciari ha aperto il ciclo di conferenze del progetto Bo/De Carlo. Pensare una città. Un ateneo nel segno del contemporaneo – ideato e curato da Tiziana Mattioli – che rende omaggio all’architetto Giancarlo De Carlo nel ventennale della scomparsa. Il primo evento della rassegna, organizzata da Uniurb con la partecipazione dell’Amministrazione comunale di Urbino, dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Pesaro e Urbino e con il patrocinio dell’Università IUAV di Venezia, ha accolto la lezione inaugurale del Professor Cacciari, Le molte vite della città: un’interpretazione filosofica, politica e utopica del dialogo (im)possibile tra città d’arte, Università e territorio. Prima dell’inizio della conferenza, l’ospite ha condiviso alcune riflessioni sull’argomento ai microfoni di Uniamo.
Professor Cacciari, Giancarlo De Carlo disegnava gli spazi e anche il modo in cui la gente avrebbe abitato quei luoghi. Per lui l’architettura era un processo partecipato: si sviluppava in dialogo con il territorio e portava risposte alle necessità concrete delle persone. Oggi la progettualità urbana può ancora far leva su sollecitazioni etiche e politiche?
Temo di no. La stagione di De Carlo la sua idea di urbanistica, il rapporto con l’architettura urbanistica, l’idea di un’organizzazione della città che sorgesse dal confronto e anche dal conflitto non c’è più. Tutta l’esperienza di De Carlo si svolge in un periodo storico dominato dalla politicizzazione, la sua è un’architettura etico-politica. Da trent’anni a questa parte noi viviamo in una deriva di depoliticizzazione radicale, quindi è ben difficile pensare che si possano ripresentare le condizioni che stavano alla base dell’esperienza di De Carlo.
Carlo Bo ha immaginato per Urbino un Ateneo in cui studio e vita si conciliassero in un’esperienza culturale piena e compiuta. Lo considera un modello di comunità accademica ancora realizzabile in una contemporaneità sempre più individualizzata e digitale?
Ancora peggio che per l’urbanistica partecipata. Siamo nell’età delle telematiche, cioè il modello didattico e di formazione è esattamente opposto a quello in base a cui sorgono le esperienze di Urbino, di Carlo Bo o di Gregotti. O ci svegliamo e facciamo una bella rivoluzione o la prospettiva è questa: l’assenza di ogni discorso urbanistico programmato e razionale e l’assenza di ogni didattica come esperienza umana compiuta. La direzione del nostro tempo è l’opposto, ci va bene? Bene. Ci va male? Ribelliamoci.
In che modo, secondo lei, possono esistere e rigenerarsi i rapporti identitari della nostra Istituzione con una realtà urbanistica che corre il rischio di “musealizzarsi” e che, invece, dovrebbe trovare in sé energie di cambiamento oltre che di convivenza con la grande eredità rinascimentale?
L’idea di Carlo Bo era l’idea che poi si è cercato di seguire in tante altre situazioni analoghe, cioè che le grandi città d’arte italiane avrebbero avuto necessariamente un destino puramente turistico se a questo destino non si reagiva con l’insediamento, al loro interno, di importanti strutture didattiche e di ricerca. Quindi, da un lato era inevitabile che, per esempio, gli abitanti nei grandi centri storici residenti diminuissero, ma a questa perdita si sarebbe reagito con la presenza consistente di giovani, di un’Università diffusa all’interno del centro storico che lo rivitalizzasse al di là della vocazione turistica, che è inevitabile in città come Urbino, Firenze, Venezia, come Siena anche. Questa era l’idea, giusta, giustissima che non si sta realizzando da nessuna parte.
Le Università come Urbino e come altre, Urbino meno, ma altre come Siena, come Cassino o come Camerino sono a rotoli. Gli studenti si iscrivono alla Pegaso, alla Link, ovviamente non fanno più i viaggi per andare a Camerino o a Cassino. E quindi l’unica risorsa che resta è quella turistica. Quella turistica fa sì che tutti i proprietari di case affittino non allo studente ovviamente a 100, ma al turista a 300 euro e questo è quello che sta avvenendo in modo massiccio e devastante a Venezia, Firenze, Bologna ma anche a Milano. Anche a Milano ormai uno studente non trova più un alloggio. Una volta erano molto appetiti gli studenti perché erano inquilini che dopo un po’ se ne andavano eccetera, adesso non lo sono più perché anche un buco è affittato con il sistema “su e via” al turista. Quindi è una situazione, diciamo così – per usare un eufemismo – disastrosa.
Al Sindaco che ha governato Venezia chiedo: è possibile raggiungere un giusto bilanciamento tra tutela del patrimonio d’arte e urgenza della gestione quotidiana della città?
Quello sì, non c’entra con i problemi di cui abbiamo parlato finora. Quello è un problema che può essere affrontato comunque perché con una sana gestione del patrimonio museale, artistico, paesaggistico, se qualche risorsa c’è, se la sovrintendenza funziona ed è in rapporto abbastanza armonioso con l’amministrazione questa salvaguardia può avvenire, anche in presenza di flussi turistici e in presenza di tutte le questioni di cui abbiamo parlato prima. Non c’è interferenza tra le grandi questioni che riguardano l’urbanistica, che riguardano l’uso della città a scopo di ricerca, di innovazione, di studio e il conflitto drammatico tra questa possibile vocazione auspicata da modelli come Urbino e la realtà dei fatti oggi.
Italo Calvino ne Le Città invisibili scriveva: «D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda». Cosa chiederebbe lei a Urbino e come risponderebbe oggi la città?
Che rimanga quello che è. Certo, se potesse riprendersi quella vocazione che Carlo Bo pensava per la quale ha lavorato De Carlo sarebbe meglio, ma – ripeto – ormai le condizioni storico-politiche sono radicalmente mutate nel senso che ho detto. Il che è un fatto e bisogna sempre, quando si ragiona di queste cose, essere molto realisti perché se no fai chiacchiere, oppure ideologie o “dover essere”, con il dover essere non vai da nessuna parte. O hai la forza, la potenza anche politica, culturale per trasformare il dover essere in essere, o il dover essere in quanto tale non serve assolutamente a nulla. Bisogna partire da una considerazione realistica: che la situazione politico-culturale attuale ed economica procede in una direzione che è opposta al dover essere dei Carlo Bo e dei Giancarlo De Carlo.