Uno studio condotto dal Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi su Famiglie, Infanzia e Adolescenza (CIRSFIA) dell’Università di Urbino colloca le Marche tra le regioni italiane che presentano il più basso indice di fecondità.
La famiglia nelle Marche tra crisi e mutamenti. Propensioni, esperienze e differenze territoriali nelle scelte riproduttive dei marchigiani è il titolo della ricerca promossa dal Forum delle Associazioni Familiari Marche e finanziata dal Consiglio Regionale delle Marche con il contributo del Dipartimento di Economia, Società, Politica dell’Università di Urbino.
A sviluppare l’indagine, secondo un modello che affianca all’analisi demografica una metodologia qualitativa, sono stati i ricercatori Nico Bazzoli, Isabella Quadrelli e Anna Uboldi coordinati dai Professori Guido Maggioni ed Eduardo Barberis.
Per capire quali sono le cause e le conseguenze del declino delle nascite nella Regione Marche, e quali le possibili politiche a sostegno della natalità e della famiglia ne parliamo con la Dott.ssa Isabella Quadrelli.

 

Dottoressa Quadrelli, da quali interrogativi e necessità nasce l’idea della ricerca?

La ricerca nasce da diversi interrogativi: come stanno cambiando le famiglie, quali sono i loro bisogni e come le trasformazioni innescate anche dalla crisi economica del 2008 si ripercuotono sulle scelte di fecondità delle coppie.
Ci siamo anche chiesti in che modo, a livello regionale, si caratterizzasse la situazione rispetto alla fecondità e alle politiche messe in atto in questo specifico ambito.
L’idea è nata, quindi, da un’esigenza del Forum delle Associazioni Familiari Marche e delle istituzioni regionali e da un interesse, più propriamente scientifico, del nostro gruppo di ricerca che ha affrontato lo studio di questa tematica già nei primi anni del 2000 quando è stato coinvolto, insieme ad altre Università italiane, in un progetto pluriennale sulla bassa fecondità.

In quale intervallo temporale è stato indagato il tema della bassa fecondità?

La crisi economica del 2008 è stata il punto di partenza della ricerca, da lì l’analisi dei dati statistici si è estesa fino al 2018.

Quali obiettivi hanno orientato la ricerca?

L’obiettivo è stato quello di sviluppare lo studio secondo un approccio che da sempre caratterizza la ricerca del nostro gruppo e che affianca all’analisi demografica una metodologia qualitativa. Abbiamo, quindi, letto i dati demografici in una prospettiva, tipicamente sociologica, che attraverso una metodologia qualitativa basata su interviste e focus group ci ha consentito di mettere in evidenza e indagare il punto di vista degli attori coinvolti: delle famiglie e delle coppie che sono alle prese con i propri progetti di fecondità.

Quali sono i principali risultati emersi?

Abbiamo condotto un’analisi specifica che ha riguardato la Regione Marche e, più in generale, le regioni dell’Italia centrale, territori che si caratterizzano per un tasso di fecondità particolarmente basso.
Nel 2018, nelle Marche si è registrato un tasso di fecondità pari a 1,25 figli per donna, rispetto a una media nazionale di 1,32. Una differenza che sembra minima, ma che in realtà è ampia e pone la nostra tra le regioni italiane a bassissima fecondità. Tra l’altro, in demografia questo dato risulta allarmante perché indica che ogni donna in età feconda genera poco più di un figlio e che, di conseguenza, nella generazione successiva si registrerà un calo della popolazione marchigiana rispetto a quella attualmente residente.

Sembra, quindi, che la bassa fecondità modifichi la struttura della popolazione.

Esatto, la bassa fecondità comporta uno squilibrio tra una quota più contenuta di giovani e una quota maggiore della popolazione anziana. Con una conseguenza importante, cioè che le giovani generazioni, quelle attive che nel prossimo futuro entreranno nel mercato del lavoro e pagheranno le tasse, non riusciranno con le proprie risorse e il proprio contributo a sostenere i bisogni delle fasce più anziane della popolazione numericamente più ampie.

 

L’altro dato rilevante è che questo calo della natalità può essere messo sicuramente in relazione con il fenomeno della permanenza dei giovani presso la famiglia di origine.
Nel 2018, nelle Marche, 168.000 giovani celibi e nubili compresi tra i 18 e i 34 anni di età vivevano nel nucleo familiare d’origine. Una quota cioè del 66%, per la fascia di età considerata, superiore rispetto al 62% della media nazionale. Questo significa che nella nostra regione esiste una situazione tale per cui è più difficile per i giovani acquisire un’indipendenza economica che permetta loro di iniziare una vita di coppia autonoma.

Un fenomeno correlato anche alla precarizzazione delle professioni e a condizioni economiche sfavorevoli?

Certamente. A partire dal 2008 si nota un generale peggioramento delle condizioni economiche delle famiglie marchigiane. Nel 2018 l’incidenza della povertà nella nostra regione è pari al 13,5%, mentre nelle regioni centrali è del 10,5%. Se i redditi medi delle famiglie marchigiane dal 2008 al 2018 sono rimasti stabili, i costi sono invece aumentati producendo una progressiva erosione delle risorse economiche delle famiglie e della loro capacità di far fronte alle necessità quotidiane.

 

In quali contesti e condizioni di vita le famiglie orientano le proprie preferenze verso nuclei che comprendano almeno due figli?

Abbiamo messo a confronto le esigenze e le strategie di famiglie in condizioni diverse rispetto al numero di figli, e abbiamo condotto l’indagine attraverso interviste di gruppo e interviste individuali a genitori con un solo figlio in età non superiore a sei anni, e a genitori con due o più figli di cui almeno uno in età non superiore a sei anni. Dopodiché, nell’interpretare i risultati li abbiamo messi in relazione con i dati rilevati attraverso le interviste ai coordinatori degli ambiti territoriali sociali che hanno contezza dei bisogni delle famiglie e delle politiche sociali messe in campo per affrontarli.

 

Ed è emerso che quando le famiglie pensano alla possibilità di un altro figlio tendenzialmente possono contare sulle risorse offerte dalla rete parentale, quindi dalle famiglie di origine sia in termini di aiuto economico alla formazione di una nuova famiglia, sia in termini di cura del nuovo nucleo. Sono, infatti, i nonni a sopperire alle carenze dei servizi o alla necessità di pagare la retta della scuola primaria.

Ma questa rete di cura parentale, che è una caratteristica tipica del modello italiano di welfare, in realtà è una risorsa sulla quale non tutte le famiglie possono contare ed è una risorsa condizionata, che pone dei vincoli in quanto i nonni non sempre sono in salute e non sempre possono occuparsi dei nipoti.

In quali circostanze prevale, invece, la tendenza a reprimere il desiderio di fecondità in favore di un unico figlio?

La ricerca evidenzia un’organizzazione molto tradizionale del lavoro familiare all’interno delle coppie che vede le donne farsi carico principalmente della cura dei figli. Donne che di frequente sono professionalmente impegnate, per le quali ridurre il numero di figli diventa una vera e propria strategia che consente di contenere il doppio carico di lavoro.

Nonostante il cambiamento culturale auspicato da più parti, esiste quindi tra madri e padri una disparità ancora significativa nella distribuzione del lavoro familiare?

In un’indagine del 2014, l’Istat segnala che a livello nazionale quasi il 68% del lavoro domestico e di cura per i figli è gestito dalle madri. Questo significa che i padri intervengono in misura crescente ma ancora minoritaria, facendosi carico di un terzo del lavoro. Maggiormente presenti sono i padri più giovani, soprattutto quelli che vivono con partner occupate nel mercato del lavoro.

 

Non abbiamo dati Istat specifici per le Marche, eppure dalla nostra indagine emerge che i padri sono ovviamente coinvolti nella cura dei figli, ma come collaboratori marginali soprattutto a causa della rigidità delle forme di organizzazione lavorativa. Nelle coppie più giovani e in quelle in cui i partner sono molto istruiti si registrano segnali di cambiamento: una maggiore condivisione, una presenza paterna che permette alle madri di mantenere le proprie occupazioni lavorative, non di rado molto specializzate e rilevanti.

Quali ricadute dello studio è possibile prevedere?

Le istituzioni regionali e locali possono utilizzare i risultati della ricerca per riorganizzare, rivedere, integrare le politiche per la famiglia. In questo senso, sono state già effettuate azioni di diffusione dei risultati e altre sono in programma.
La ricaduta più di carattere scientifico riguarda, invece, gli studi sulla bassa fecondità che negli ultimi anni si stanno avvalendo non solo dell’apporto delle scienze demografiche ma anche, e sempre di più, dell’apporto della scienza sociologica e antropologica. La bassa fecondità è un problema che affligge la maggior parte dei Paesi europei, ed è chiaro ormai che per poterlo comprendere e gestire attraverso le politiche sociali occorre un’analisi attenta dei contesti locali e culturali nei quali si manifesta.

L’indagine ha fornito proposte di intervento a sostegno della natalità e della famiglia?

Sì, il report ha previsto anche indicazioni di policy che procedono certamente nella direzione di una maggiore attenzione ai bisogni economici delle famiglie, e della conciliazione tra vita professionale e privata.
La Regione Marche ha investito molto sulla diffusione di una rete di servizi per la prima infanzia che fosse un’opportunità per le famiglie e che consentisse alle donne di conciliare i bisogni della famiglia, eppure la criticità che emerge riguarda l’elevato costo delle rette soprattutto degli asili nido: un vincolo per i nuclei con reddito più basso.

 

Occorre, inoltre, assicurare alle donne e anche gli uomini interventi di tipo culturale che favoriscano una maggiore collaborazione tra madre e padre nella gestione quotidiana dei figli, e modelli organizzativi ad hoc nell’ambito del lavoro retribuito che garantiscano maggiore flessibilità per entrambi i genitori, con pari responsabilità di cura familiare, indipendentemente dal genere.

È possibile ipotizzare una fase due della ricerca che evidenzi le ripercussioni dell’emergenza da Covid-19 sulle scelte di fecondità delle coppie?

Abbiamo consegnato il report a febbraio del 2020, nel momento in cui è sopraggiunta l’emergenza sanitaria. La crisi porterà un maggiore calo della natalità ma per dare indicazioni in merito, occorrerà valutare gli effetti che produrrà soprattutto sull’economia nazionale e regionale. Ad ogni modo, noi crediamo che le indicazioni di policy rimangano valide, ovviamente con le dovute integrazioni legate ad interventi economici che diano risposte alle criticità che già c’erano e alle nuove che si porranno. Al momento posso solo dire che c’è un interesse da parte nostra nel realizzare un follow-up dello studio alla luce del cambiamento di scenario verificatosi a seguito dell’emergenza sanitaria.

 

 

 

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