Buon compleanno, Magnifico!
Nel giorno del 111° anniversario della nascita di Carlo Bo e nel sesto centenario della nascita di Federico da Montefeltro, Uniurb porta online testi che illuminano una serie folgorante di narrazioni sul Palazzo Ducale ad opera di scrittori che hanno avuto piena consuetudine con la città di Urbino. Le pagine critiche, insieme alle suggestioni fotografiche, che interrogano e interpretano i luoghi e le architetture della casa di Federico, rappresentano un segmento dei molti, preziosi esiti del progetto internazionale Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito, ideato e coordinato da Tiziana Mattioli, docente di Letteratura italiana dell’Ateneo urbinate, e promosso nell’ambito del Prorettorato allo Sviluppo di Partenariati Strategici Nazionali e Internazionali.

Ne parliamo con gli autori: Simone Dubrovic, Full Professor of Italian Modern Languages & Literatures al Kenyon College di Gambier, Marco Faini, Visiting Professor all’ICUB The Research Institute of the University of Bucharest, Paola Ugolini, Associate Professor alla University at Buffalo, e Paolo Semprucci, autore della serie fotografica che correda la mostra Carlo Bo, Il Palazzo Ducale. Parole e immagini nelle stanze e la lezione-sezione I teatri di Palazzo Ducale. Un racconto possibile, tenuta da Tiziana Mattioli e rivolta agli studenti del Biennio di Fotografia dell’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino.

 

Quale dato interpretativo primario emerge dalla selezione di letture novecentesche sul Palazzo Ducale che ha indagato?

Simone Dubrovic ― Full Professor of Italian Modern Languages & Literatures, Kenyon College – Gambier

Il dato primario è proprio il Palazzo Ducale, sempre e comunque: l’incanto che ha suscitato in chi, per diverse ragioni, ha sentito il bisogno di scriverne o di ricordarlo in poche fulgide righe. È la sua capacità di provocare meraviglia, a prima vista, ma anche un’intima esigenza all’interpretazione e all’ascolto di risonanze nell’attraversarlo, mettendo infine sulle tracce di se stesso colui che lo contempla. È la cosa che io trovo più toccante: questo impianto allegorico che, dalla cornice rinascimentale e dal progetto politico del gran Duca Federico, sa conservare – pure in una definizione oggi più incerta, orfana di cultura e simboli – la sospensione verso qualcosa che suggerisce una possibilità ulteriore, una nostalgia di significato e di senso. Il Palazzo Ducale, certo immagine di potere e imposizione per un segmento di tempo storico, diventa una sorta di percorso iniziatico nel tempo libero dalla Storia, un enigma con cui dialogare in silenzio, un rompicapo dell’anima risolto nella luce della costruzione e dell’esperienza compiuta.

Federico da Montefeltro e Carlo Bo – l’ultimo dei Duchi – hanno realizzato a Urbino “un’utopia umanistica”?

Sì, non c’è dubbio. Ma “utopia” indica l’assenza di luogo, una possibilità non realizzata, lanciata verso gli spazi del sogno e dell’altrove. Il Duca Federico e Carlo Bo, l’ultimo dei Duchi, un luogo l’hanno creato, un luogo che ancora esiste, in cui ancora permane l’eco, chiarissima, di qualcosa che lì è accaduto e si è manifestato in modo potente, come un’esplosione di bellezza, intelligenza e cultura. Il Duca Federico come padre originario, così come appare nelle campiture rosse del dittico struggente di Piero, ritagliato sul paesaggio e quasi a venir fuori dal quadro stesso, nell’aggetto della sua grandezza: tutta la violenza della Storia (e della vita) che si trascende in bellezza. E Carlo Bo che eredita quella bellezza ormai completamente netta e lavata dall’acqua dei secoli e vi costruisce una riflessione che è anche il fondamento del piano civile e culturale della sua università, dove tutto si fa pensiero, lavoro letterario, eredità dei valori più nobili dell’umanesimo.

Urbino e Bucarest, il Palazzo Ducale e il Palazzo del Parlamento, Federico da Montefeltro e Nicolae Ceaușescu. Come nasce e come si sviluppa l’inatteso parallelo?

Marco Faini ― Visiting Professor, ICUB – The Research Institute of the University of Bucharest

Il parallelo è nato per caso allorché sono arrivato a Bucarest per un soggiorno di ricerca. Il mio appartamento è poco distante dal palazzo che, con la sua mole enorme, domina buona parte dell’orizzonte. Il confronto mi si è imposto con naturalezza. Anche quello romeno, come quello di Federico, è un “palazzo in forma di città”. Entrambi sono luoghi intimamente legati a una figura di leader: tragica l’una (Ceaușescu), grandiosa, ma non priva di lati oscuri, l’altra. Entrambi, infine, sono rimasti incompiuti alla morte del loro ideatore. Altrettanto ovvio notare le differenze, però: soprattutto nella mancanza d’armonia con cui il Palazzo del Parlamento s’inserisce nel tessuto urbano, sconvolto per fargli spazio: nulla, qui, della leggerezza e dell’armonia dell’architettura urbinate. Fin troppo facile pensare i due palazzi nei termini oppositivi dell’utopia rinascimentale e delle distopie totalitarie novecentesche. In generale, se Urbino è rimasta virtualmente immutata, per quanto possibile, Bucarest ha cambiato pelle numerose volte, a seguito d’invasioni e catastrofi naturali e, più tardi, degli interventi del regime e di una generale incuria.

Quale destino attraversa il Palazzo Ducale e la corte quando, nel 1636, ospitano La fuga di Erminia: il balletto in tre atti, di Giovan Leone Sempronio?

Sempronio scrive post res perditas, dopo la devoluzione del Ducato nel 1631: questo aspetto mi ha immediatamente colpito per via del velo di tristezza che inevitabilmente pervade il testo. Del resto, già l’ultimo Duca aveva vissuto prevalentemente nel palazzo di Urbania. Le grandi famiglie urbinati tuttavia restano, la vita sociale si svolge con splendide rappresentazioni – penso ad esempio a quella riservata pochi anni più tardi alla tragedia del Sempronio, Il Conte Ugolino, e della quale ci restano resoconti manoscritti e a stampa. Non condivido però in toto l’idea crepuscolare di un lungo tramonto dell’epopea ducale. Il Seicento urbinate splende dei colori di Barocci, ci consegna la poesia straordinaria dello stesso Sempronio, è illustre di scienziati e artefici, fornisce membri di singolare ingegno all’Accademia degli Assorditi. Insomma, il balletto, che inevitabilmente ruota attorno al grande tema della corte e della sua perdita, s’inserisce in un momento di “elaborazione del lutto” in cui però ribollono energie vitali che, non appagate del ricordo elegiaco della gloria passata, interrogano il presente con inquieta curiosità.

Immagino che questo progetto sia stato un viaggio da Buffalo a Urbino per incontrare Carlo Bo e Federico Da Montefeltro…

Paola Ugolini ― Associate Professor, University at Buffalo

Subito dopo aver saputo di aver vinto una borsa di dottorato alla New York University, non so perché ho scelto di passare a Urbino e visitare il Palazzo Ducale che già conoscevo e amavo. Arrivata a New York, uno dei primi corsi che ho seguito trattava proprio del mondo delle corti del Rinascimento. Da questo corso è poi nato il progetto per la mia monografia, che tratta del rapporto tra letterati del Rinascimento e cultura delle corti. Posso quindi dire che Urbino e il Palazzo Ducale mi accompagnano fin dalle origini del mio percorso di studiosa.

Come si costruiscono lo spazio del Palazzo e la dimensione della corte nelle parole di Baldassar Castiglione?

Il rapporto del Libro del Cortegiano con lo spazio della corte, e in particolare con la corte di Urbino, è abbastanza complesso. Da un lato la corte è dipinta con affetto e nostalgia – verrebbe quasi da dire con tenerezza – mentre dall’altro si intravvedono elementi di insoddisfazione e di critica verso quello stesso ambiente. Ci sono studi che parlano della rappresentazione della corte nel Cortegiano come una specie di ventre materno. In una realtà che si avviava a divenire sempre più accentrata sulla figura del principe, e che riduceva sempre più gli spazi di autonomia e di influenza per gli intellettuali cortigiani, un uomo come Castiglione non poteva non cominciare a vivere qualche frustrazione. Lo spazio della corte è quindi sentito contemporaneamente come spazio accogliente e come ambiente quasi claustrofobico. Bisogna anche ricordare che nel momento stesso in cui Castiglione scriveva il Cortegiano la corte di Urbino era profondamente cambiata…

I suoi scatti fotografici hanno “letto” i luoghi e le architetture del Palazzo Ducale di Urbino sollecitati dalla voce di Bo. Tra i tanti, qual è il testo che meglio ha dialogato con lo spazio rappresentato?

Paolo Semprucci ― Maestro di fotografia

La Professoressa Tiziana Mattioli, nel 2018, mi propose di realizzare alcune fotografie sul Palazzo Ducale di Urbino così come rappresentato in un testo di Carlo Bo intitolato Una visione aperta e libera. Il mio nome glielo aveva suggerito l’allora Direttore Scientifico della Fondazione Carlo e Marise Bo, Marcello Di Bella.

La serie fotografica da me prodotta trae origine dalla lettura di questo testo e da alcune parole chiave – quella che lei chiama la voce di Bo – da me estrapolate per formare una lista di possibili soggetti. Ne rammento, a memoria, solo alcune: “casa”, “grazia”, “familiare”, “à jamais”, “radici”, “salita”, “conoscenza”, “visione aperta e libera”… Talvolta a queste parole chiare e nitide si sono sovrapposte altre voci, altre immagini e altri suoni che hanno contribuito a formare il risultato finale.

Un bilancio dell’esperienza?

Definirei questa esperienza un esercizio lungo e assai impegnativo. L’incarico affidatomi mi imponeva il confronto, decisamente impari, con due giganti: da una parte il Duca Federico e il Palazzo ducale, l’dea di “una città in forma di palazzo”, dall’altra Carlo Bo, la sua lettura del Palazzo Ducale e la sua idea, condivisa con De Carlo, di città in forma di Ateneo. Il bilancio di questa esperienza, per le riflessioni che mi ha indotto a svolgere sul tema di “parole e immagini” e per il dialogo che ha prodotto con nuovi e vecchi amici, è indubbiamente positivo.
Mi preme ringraziare Tiziana Mattioli per l’amichevole contributo e per i preziosi consigli. Senza il suo impegno questa serie fotografica non sarebbe stata realizzata. Desidero, inoltre, ringraziare tutti i membri della Fondazione Carlo e Marise Bo per aver prodotto e ospitato le mie fotografie.

 

 

 

 

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