Parole di Giustizia è il festival giuridico-culturale promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino e dall’Associazione Studi Giuridici Giuseppe Borrè, con il patrocinio, tra gli altri, dell’Associazione Nazionale Magistrati. La terza edizione dell’evento divulgativo dedicato a studentesse e studenti e, più in generale, alle comunità del territorio si è svolta dal 20 al 22 ottobre nelle città di Urbino, Pesaro e Fano e ha coinvolto magistrati, avvocati, docenti, sociologi, comunicatori, linguisti che seguendo il tema conduttore della “casa”, intesa come luogo fisico dell’esistenza, della costruzione di legami e come categoria cognitiva, hanno portato nelle molte conferenze il proprio punto di vista sul “diritto ad abitare il futuro”. Nell’occasione abbiamo parlato di casa, di rete e di guerra con il politologo Carlo Galli, Professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, già Deputato della Repubblica nella XVII legislatura.

 

Il Professor Carlo Galli

Professor Galli, il festival Parole di Giustizia si è aperto con la sua lectio dedicata al concetto di “Casa comune”. Quale significato ha la locuzione in politica?

Se si vuole adoperare la metafora della casa – che è una metafora premoderna diversa da quella del corpo con cui è nato lo stato moderno – significa che la comunità politica è qualcosa di costruito. Al pari delle case che non nascono da sole ma devono essere edificate, anche la politica è l’ambiente della coesistenza costruito da noi, nostro e a noi noto non perché dentro ci siamo nati per caso, ma perché lo abbiamo creato. Che poi è l’essenza stessa della democrazia: abitare uno spazio costruito da noi, non introdotto dalla tradizione e non dalla natura.

 

La “Casa comune” è, quindi, un confine, un perimetro artificiale generato da un atto di libera volontà umana, cioè un perimetro universale astratto che coincide con la Costituzione, dal quale nessuno dev’essere escluso e dentro cui deve poter esser contenuta una materialità concreta di cittadini impegnata in attività materiali altrettanto concrete: il lavoro – l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro – che da una parte unificano e dall’altra dividono, perché il lavoro divide a seconda delle posizioni e dei ruoli che le persone occupano nel processo produttivo. Quindi, il concetto di “Casa comune” implica un perimetro astratto ma efficace e una materialità concreta, anche conflittuale, di soggetti che dentro quel perimetro deve comunque abitare.

Anche la rete è casa per l’uomo contemporaneo. Con quali parole possiamo vivere questo spazio condiviso preservando e tutelando un’idea di democrazia?

La rete e la democrazia non vanno d’accordo perché la rete non ha perimetro. La rete è mondiale, globale, non ha regole e le poche che esistono sono imposte da alcuni proprietari privati, non condivise e non necessariamente condivisibili. La democrazia è un ordine, la rete è lo stato di natura, il disordine. Può essere un disordine in cui è bello aggirarsi, in cui ogni tanto si trovano tesori nascosti, ricchezze sepolte, ed è anche un posto in cui si fanno brutti incontri, ma non è democrazia.

 

Quindi, abbiamo speranza di trovare parole in rete basta che non crediamo che sia democrazia. Si pratica la democrazia politica quando non si va in rete, quando si conosce la Costituzione la si rispetta e la si fa rispettare, quando ci si interessa attivamente di politica, si fa parte di un partito, di un’associazione culturale, quando si esprimono le proprie opinioni confrontandosi con le opinioni degli altri: cosa che in rete – in linea teorica – si può fare, ma che in linea pratica non si fa perché in rete viene fuori la “non ragione” che abita dentro di noi.

Dalle nostre case e nelle nostre case in che modo possiamo pensare le guerre in corso?

Lo sforzo fondamentale da fare è di non considerare la guerra che vediamo attraverso i nostri schermi come uno spettacolo. Non è una fiction, la guerra è vera per cui bisogna praticare la compassione, nel senso di provare a patire insieme agli altri. Capire cos’è una guerra significa confrontarsi con l’infinita precarietà dell’esistenza e con la dimensione violenta della politica, imparare a conoscerla, prenderne atto e adoperarsi perché resti il più a lungo possibile neutralizzata. Quindi, credo sia importante provare veramente a “compatire” per comprendere quale immane tragedia essa sia e, secondo, studiare per capire non tanto chi ne è responsabile, perché sono responsabili più o meno tutti gli attori coinvolti, ma per capirne l’origine e dove si potrebbe portarla perché si plachi, si neutralizzi in una pace.

Quali scenari si apriranno? Si è fatto un’idea di quel che potrebbe succedere?

Non precisamente, però ho capito qual è il ragionamento del partito democratico americano. Noi abbiamo un’egemonia sostanzialmente mondiale contestata ormai da molte parti. Definiamo chi contesta la nostra egemonia autocrate o terrorista, a volte lo è veramente a volte no, e siamo orientati a combattere tutta la guerra che ci viene portata senza arretrare davanti a nulla. Per cui combatteremo in Ucraina, combatteremo in Medio Oriente e combatteremo a Taiwan e la chiameremo “guerra per la democrazia” quando invece è una guerra per l’egemonia, nemmeno dell’Occidente, ma degli Stati Uniti, in quanto l’Occidente è la categoria della civiltà, mentre l’egemonia è la categoria della politica.

 

Per intenderci, a Taiwan non ci sono i francesi, i tedeschi, gli italiani, gli spagnoli, cioè l’Occidente, ci sono gli Stati Uniti. Trump, in quanto repubblicano, era portatore di una politica meno universalistica, magari più violentemente portata a contrastare la Cina ma meno ad aiutare l’Ucraina, quindi certamente sempre orientata alla difesa del primato americano in modo, però, più selettivo. Biden, invece, non fa distinzioni e sceglie di combattere ovunque. Certo, se può fa combattere gli altri – gli ucraini e gli israeliani – però con un sostegno totale, per cui non vedo un futuro di pace all’orizzonte.

Conviene, quindi, bypassare lo schema “democrazia contro autocrazia”?

Gli USA hanno conosciuto un’egemonia mondiale inevitabile per motivi storici oggettivi, ma era inevitabile anche che ad un certo punto nascessero potenze che sfidano gli Stati Uniti o da cui gli Stati Uniti si sentono sfidati. Nessuno chiede agli americani di ritirarsi, ma certamente quello che non è facile da accettare è leggere queste dinamiche in chiave di democrazia versus autocrazia, perché dall’altra parte ci sono regimi non liberali, come quello russo e quello cinese, c’è la più grande democrazia del mondo, cioè l’India, e dentro l’Occidente americano ci sono e ci sono state fior di dittature.

 

Quindi, lascerei stare la lotta all’ultimo sangue tra democrazia e autocrazia e leggerei il presente in chiave di ricerca di egemonia, che può essere disastrosa oppure può arrivare a un equilibrio, ma per arrivare a un equilibrio bisogna che entrambi i contendenti, poniamo Stati Uniti e Cina, si convincano che abitiamo il pianeta in modo plurale e che non ci può essere un solo potere che si spande sul mondo nella sua totalità.

 

 

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