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Di tanto in tanto bisognerebbe ripensare lo stereotipo del cervello in fuga e ammettere che certe menti brillano nelle università italiane in cui si formano e continuano a brillare nei college stranieri in cui atterrano. Tant’è. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, per una volta potremmo constatare con qualche compiacimento che i giovani ricercatori con background tutto italiano, all’estero sono gettonatissimi. Una di queste menti si chiama Simone Dubrovic, ex allievo dell’Università di Urbino, adesso professore associato al Kenyon College nello stato dell’Ohio dove dirige i corsi di Lingua e Letteratura italiana e Cinema presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Moderne.

Qualche anno fa, dopo la laurea in Lettere Classiche con indirizzo storico artistico e un dottorato in italianistica, decide di trasformare la passione per i suoi studi in un lavoro vero e proprio. Si guarda intorno e non trova spazi accessibili, nulla di fatto per qualche tempo finché di colpo tutto decolla. L’alternativa arriva per caso ed è un biglietto per l’America.

Al Kenyon College inizia una nuova esperienza accademica in costante dialogo con quella urbinate, passata eppure sempre presente.

Simone Dubrovic

Simone Dubrovic

A sostenere il lavoro di oggi è il retroterra del lavoro di ieri: il percorso formativo compiuto tra le aule di Palazzo Veterani che definisce “eccellente”. “Negli Stati Uniti – spiega – si insegna e si concepisce lo studio in maniera molto diversa, per questo ad alcuni meccanismi e tematiche ho dovuto avvicinarmi ex novo”. Detto questo, aggiunge che il sostrato di studi urbinati “è stato sempre un punto di riferimento fondamentale, anche nei necessari cambiamenti e nelle direzioni talora ad esso quasi opposti”.

Il patrimonio documentale della biblioteca di Urbino ha molto favorito la sua ricerca per la tesi di dottorato (pubblicata poi, con revisioni, in volume): una critica tematica sull’immagine della Grotta nei testi letterari italiani tra Tre e Cinquecento. E anche in America il supporto di Urbino non è mai mancato. L’esempio che riferisce è un lavoro di qualche anno fa (la pubblicazione del carteggio tra Carlo Linati e Emilio Cecchi), per il quale essenziale è stato il contributo della Fondazione Carlo e Marise Bo che ha spedito oltreoceano preziosissimi documenti in scansione.

Gli anni del dottorato li ricorda come un periodo straordinario. “Urbino è uno dei posti più singolari al mondo, un fiore nato su un terreno impervio, ostile, una città dell’anima che appare d’incanto col suo Palazzo Ducale paterno e benevolo a vegliare su un mondo circostante, ahimè, sempre più globalizzante (e banalizzante)”.

Simone racconta con entusiasmo del rapporto privilegiato con i professori dell’ex Istituto di Filologia Moderna “sempre generosamente presenti e partecipi”, una sorta di team di ricerca che ha sostenuto in modo determinante la sua formazione. E soprattutto parla del suo Maestro, il Professor Giorgio Cerboni Baiardi da cui ha imparato “tutto quello che dà senso a questa professione. Ossia la capacità di arrivare al cuore dei testi, cercando sempre, in essi, le cose vive. L’attitudine a intendere la scrittura critica come forma d’arte e non come mediocre e capzioso regesto di fatti, dati o teorie, e poi l’amore per le “incrinature” della pagina, in cui si rivelano sempre le essenze più intime dello scrivere”.

Alla domanda “torneresti in Italia” risponde di non essere mai andato via veramente, precisa che torna di frequente e che la sua assenza dal Paese è solo temporanea. In equilibrio tutt’altro che precario tra continuità e cambiamento, tra Italia e Usa, ha elaborato una strategia di lavoro e di vita tra i due continenti che per ora funziona e più avanti, chissà, passerà allo step successivo. What next?

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