Si è svolta di recente la XXVI edizione dell’International Summer School in Philosophy of Physics, organizzata nell’ambito del Dipartimento di Scienze Pure e Applicate. “Un’occasione molto bella – ha spiegato il Professor Vincenzo Fano, Direttore della Scuola – durante la quale studiosi e studenti da tutto il mondo discutono dei temi più attuali della filosofia della fisica. Quest’anno si è parlato di materia oscura. Sappiamo che c’è a causa degli effetti che provoca, che costituisce la maggior parte della materia, ma non sappiamo che cosa sia, né riusciamo a rilevarla sperimentalmente”.
Tra i molti ospiti del corso anche Francesca Vidotto, Fisica teorica alla University of Western Ontario e al Rotman Institute of Philosophy, studiosa di filosofia della scienza e di epistemologia femminista. Con lei abbiamo parlato di donne, scienza e materia oscura.

 

Professoressa Vidotto, in occasione della Summer School in Philosophy of Physics di Uniurb la bussola della sua ricerca ha spostato l’ago dalla gravità quantistica ai buchi neri!

La summer school di Urbino da tempo è un appuntamento fisso; negli anni ho partecipato da studentessa e mi fa piacere tornare come insegnante. Sì, la linea principale della mia ricerca riguarda la gravità quantistica e nei giorni della scuola estiva ho tenuto un intervento sui buchi neri primordiali, un argomento che si inserisce nel tema più ampio che orienta quest’anno il corso e cioè la filosofia della materia oscura, altro importante filone di indagine della fisica contemporanea che cerca di trovare il punto di incontro tra la ricerca in fisica e l’analisi concettuale rispetto agli esiti che gli scienziati producono, e ai metodi che utilizzano per studiare i differenti fenomeni fisici. In sostanza, quando ci confrontiamo con il fenomeno della materia oscura – che non osserviamo direttamente, che non tocchiamo, che riusciamo a indagare principalmente attraverso simulazioni – ci interroghiamo sul modo in cui evolve il metodo scientifico.

Anche il divario di genere nella scienza è una forma di materia oscura di cui da tempo si occupa, esatto?

Esatto. Leggo da sempre libri sulla filosofia della scienza e sulla filosofia femminista della scienza. All’Università di Padova ho studiato fisica, ma già in quegli anni la passione per l’argomento mi ha spinto a far parte del Comitato Pari Opportunità e a organizzare una serie di attività seminariali, conferenze, rassegne di teatro di ispirazione femminista sulla scienza.

 

Quando, più tardi, sono arrivata in Canada, dove sono stata assunta principalmente per il mio lavoro sui fondamenti della fisica dello spazio-tempo della gravità quantistica, mi sono trovata a far parte di un Dipartimento che è un’eccellenza mondiale della filosofia della fisica e anche della filosofia femminista.

 

Piano piano ho scoperto che alcune delle autrici che leggevo nell’adolescenza erano state docenti nello stesso Dipartimento, dove era già attivo l’insegnamento di filosofia e di epistemologia femminista e lì, in un corso dedicato, ho cominciato a portare il mio punto di vista sulla possibilità di integrare una prospettiva femminista anche nelle scienze dure.

È possibile disegnare una geografia della presenza femminile nella ricerca?

Esiste una grande variabilità a seconda dell’area geografica. In Italia le donne che fanno ricerca scientifica di ogni tipo, dalla matematica alla sociologia, sono in percentuale maggiore rispetto ad altri Paesi. La situazione è molto più grave in Nord America o in Inghilterra. Faccio un esempio: ho passato cinque anni in Olanda, dove, venendo dall’Italia avevo la percezione di trovare un alto livello di emancipazione femminile. Invece, ho scoperto che l’Olanda ha la percentuale più bassa di ricercatrici, tant’è che ho lavorato per molti anni in un Dipartimento di matematica che contava una sessantina di persone e io ero l’unica donna.

 

Paesi con una forte presenza femminile nella ricerca sono l’Iran o la Thailandia e questo dato spiega che la maggiore o minore percentuale dipende non dal grado di emancipazione o da una predisposizione intrinseca delle donne – e anche degli uomini – verso certi problemi scientifici, ma dalla situazione sociale, dalla percezione che un dato Paese ha della scienza e della ricerca, e anche da un problema di diritti nell’ambito del mercato del lavoro e nel contesto delle carriere. Semplificando molto, in luoghi e società in cui la scienza è considerata rilevante le donne hanno difficoltà ad accedere alla ricerca. E questo è vero, in generale, per tutte professioni.

Stupisce il caso dell’Iran.

La prima Medaglia Fields – considerata dai matematici una sorta di premio Nobel – è stata attribuita nel 2014 a una donna iraniana: Maryam Mirzakhani. Si tratta di un Paese in cui lo studio e l’indagine nell’ambito della matematica, ad esempio, non sono preclusi alle donne. Quando chiedevo ragione di questo ai miei amici iraniani, rispondevano “perché fare ingegneria è una cosa da uomini, invece la matematica è come la poesia non ha bisogno di muscoli, ha bisogno del pensiero, della creatività”.

 

Per cui se si considerano le cosiddette scienze dure come un processo creativo, be’ allora ha senso che questo processo possa dipendere dal nostro modo di essere, da tutte le esperienze che abbiamo fatto nel passato, dalle nostre ispirazioni creative più diverse e che possa poi procedere in direzioni diverse a seconda, appunto, del background delle persone, nel quale includo anche il genere.

Il contributo che le donne portano alla ricerca è fuori discussione, eppure anche la scienza continua ad essere una questione di genere.

Esatto. Analizzando diversi ambiti di ricerca della fisica, ad esempio, è risultato evidente che nei settori ancora poco esplorati, non inquadrati in una struttura gerarchica prestabilita e meno contaminati da stereotipi di genere, lavorino più donne. Questo accade perché libere da condizionamenti le ricercatrici possono procedere senza incontrare resistenze dall’alto.

 

Nelle scienze in cui la presenza femminile ha superato una certa massa critica, e penso ad esempio alla medicina o alla biologia, si è verificato certamente un cambiamento nel modo di fare scienza. Si sono aperte nuove direzioni di ricerca, sono stati adottati approcci alla materia scientifica diversi da quelli inclusi in una prospettiva esclusivamente maschile che hanno permesso alla scienza di progredire.

 

Secondo le filosofe femministe – e secondo me – non si stratta di far emergere un solo punto di vista da considerare oggettivo, si tratta invece di includere nella ricerca una pluralità di soggetti, non dello stesso genere e con pari dignità, che abbiano prospettive e interpretazioni diverse e portino metodi di indagine, esperienze e idee differenti per espandere insieme la visione di un determinato problema scientifico.

Il cambiamento che si auspica è di ordine culturale e di lungo periodo. Detto questo, da dove si comincia?

Dalla scuola dell’infanzia e da quella primaria. Parliamo di un cambiamento radicale che deve riguardare la società nel suo complesso e questo significa che per formare buoni cittadini e scienziate e scienziati di valore è necessario educare all’equità e sviluppare nelle bambine e nei bambini una nuova sensibilità, aperta alla parità di genere.

 

Chiaramente, si tratta di un cambio di passo che non si realizzerà nell’immediato, per cui occorre intervenire prima di tutto sulla formazione degli insegnanti. La Scuola di ogni ordine e grado ha bisogno, infatti, di maestri capaci di insegnare con passione le materie in programma, e anche di insegnare a riconoscere e a smascherare gli stereotipi di genere, sollecitando nei giovani la consapevolezza che il pregiudizio, nel senso più ampio della parola, può condizionare la vita di ognuno di noi.

 

 

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