In Groenlandia i ghiacciai fondono a una velocità sette volte superiore a quella registrata nei primi anni ‘90. Una variazione probabilmente irreversibile, dovuta al riscaldamento globale, che rappresenta il limite estremo delle proiezioni per la fine del XXI secolo segnalato dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo scientifico intergovernativo per la valutazione dei cambiamenti climatici.
Il dato è l’esito di una ricerca condotta in partnership da cinquanta organizzazioni internazionali, supportate da ESA (European Space Agency) e NASA (National Aeronautics and Space Administration).
Ne parliamo con Giorgio Spada, docente di Fisica della Terra presso la Sezione di Fisica del Dipartimento di Scienze Pure e Applicate dell’Università di Urbino, che ha partecipato allo studio pubblicato oggi sulla rivista Nature.
Professor Spada, Nature ha pubblicato l’articolo Mass balance of the Greenland Ice Sheet from 1992 to 2018. Quali sono gli obiettivi e gli esiti della ricerca?
L’obiettivo dello studio è quello di valutare il bilancio di massa del ghiaccio della Groenlandia dal 1990 ad oggi. Ossia, capire quanto ghiaccio si sia sciolto da allora a causa dei cambiamenti climatici.
Gli esiti della ricerca sono chiari: il ghiaccio si è fuso ad una velocità via via crescente, al punto che il ritmo di perdita (cioè le giga-tonnellate di ghiaccio perse ogni anno) è oggi ben 7 volte più grande di quanto fosse all’inizio degli anni ‘90.
Quali tipologie di rischio si possono prevedere?
L’aumento globale del livello marino, conseguente alla fusione accelerata dei ghiacci della Groenlandia, metterà a rischio di inondazione un numero crescente di popolazioni costiere e causerà una esacerbazione dei fenomeni erosivi e della intrusione salina.
Sulla base dei risultati dello studio, si stima che, a causa dell’accelerazione nella perdita di ghiaccio, 40 milioni di persone in più saranno sottoposte a rischio di inondazione da qui al 2100.
Quali sono le aree costiere a rischio nel mondo?
Sono molte. Tutte quelle a bassa elevazione sul livello attuale del mare e, allo stesso tempo, densamente popolate. Il delta del Gange, ad esempio, o il Golfo del Messico, le isole del Pacifico, solo per citarne alcune. Vaste sono quelle in nord Europa, come i Paesi Bassi e alcuni tratti delle coste del Regno Unito.
E in Italia?
Si pensi a Venezia e alle coste dell’Emilia Romagna, ad esempio: luoghi in cui al rischio di inondazione per un aumento del livello marino si aggiunge quello dovuto alla subsidenza naturale e quello causato dalle attività antropiche, come l’estrazione dei fluidi dal sottosuolo, l’eccessiva urbanizzazione, una cattiva gestione delle risorse del territorio costiero, la distruzione delle difese naturali ecc.
Lo studio quali informazioni aggiunge all’ultimo rapporto sul clima diffuso lo scorso settembre dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC)?
Il nostro studio permette di confrontare dati effettivamente osservati – specialmente con l’uso di tecniche da satellite – con le proiezioni del precedente rapporto sul clima del 2013. Il risultato del confronto è piuttosto sconfortante. Infatti, il dato è in linea con le previsioni più pessimistiche che i climatologi avevano fatto per Groenlandia.
In che anno è stata avviata la ricerca e quante organizzazioni internazionali ha coinvolto?
La ricerca è iniziata nel 2012 e si deve ad IMBIE, una collaborazione internazionale fra scienziati polari, finalizzata a fornire stime del contributo delle masse glaciali al livello marino.
Le organizzazioni coinvolte sono una cinquantina, si tratta di Università, enti di ricerca, agenzie spaziali come NASA ed ESA che stanno sostenendo questa ricerca, il cui Principal Investigator è Andrew Shepherd della University of Leeds (UK).
L’anno scorso lo stesso gruppo di ricerca ha pubblicato su Nature uno studio analogo sullo “stato di salute” del ghiaccio antartico che, con i suoi circa 60 metri di livello marino equivalente, è la più grande massa glaciale oggi esistente. Combinando misure di gravità da satellite con predizioni di modelli matematici, abbiamo, per la prima volta, ricostruito il bilancio di massa dei ghiacci antartici per un quarto di secolo – nel periodo che va dal 1992 al 2017 – migliorando significativamente le valutazioni precedenti e stimando un contributo complessivo di ben 8 millimetri all’aumento globale del livello del mare.
Può dirci di più sul contributo scientifico dell’Università di Urbino?
A Urbino, presso la Sezione di Fisica del DiSPeA, abbiamo sviluppato il metodo utile a correggere i dati satellitari dagli effetti delle variazioni climatiche avvenute nel lontano passato (associate ai cicli glaciali), con l’obiettivo di valutare il contributo di quelle attuali. Si è trattato di un lavoro iniziato più di 20 anni fa, al mio arrivo in questo Ateneo.
I modelli matematici sono estremamente complessi, ma grazie a tantissime collaborazioni in campo nazionale e internazionale nel corso degli anni e, in particolar modo, più di recente con l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) li abbiamo messi a punto e validati.
Oggi, quindi, ci è possibile utilizzarli con confidenza nel contesto delle variazioni climatiche e, più nello specifico, dello studio del bilancio di massa dei ghiacci continentali come quelli che coprono l’Antartide e la Groenlandia.
Quali ricadute ha generato lo studio?
Penso che, grazie ai risultati ottenuti in questo studio, oggi si sappia di più su come le variazioni climatiche stiano effettivamente alterando la stabilità dei ghiacci della Groenlandia. Le osservazioni satellitari dei ghiacci polari si sono provate essenziali per monitorare e predire come il cambiamento climatico stia influendo sullo scioglimento dei ghiacci e sull’aumento del livello marino.
Inoltre, grazie a questo studio, le proiezioni che in futuro i climatologi produrranno circa l’evoluzione delle masse glaciali potranno basarsi su dati più attendibili e maggiormente condivisi dalla comunità scientifica.
In copertina: immagine di Ian Joughin, University of Washington.
The midnight sun casts a golden glow on an iceberg and its reflection in Disko Bay, Greenland. Much of Greenland’s annual mass loss occurs through calving of icebergs such as this.