Giovedì 23 marzo, il Rettore Giorgio Calcagnini ha conferito il Sigillo dell’Università di Urbino al Maestro Carlo Pagnini, poeta dialettale, autore e attore di teatro. «Testimone di una “scienza popolare” spesso confinata in una letteratura d’occasione, attraverso un linguaggio iconico, strutturalmente e verbalmente restituito in espressioni gergali e proverbiali, Carlo Pagnini – ha spiegato il Magnifico – riesce da sempre a spargere significativi semi di una sapienza alimentata dall’osservazione, dall’esperienza e da procedure conoscitive trasmesse di generazione in generazione».
La cerimonia si è svolta nel Salone Metaurense del Palazzo Ducale di Pesaro, sede della Prefettura di Pesaro e Urbino, e ha acceso i riflettori sull’uomo e sulla sua opera: una forma di artigianato locale della parola detta e scritta in un dialetto elegante. Una “lingua madre” capace di disegnare per un’intera esistenza quadri di vita giganteschi che condensano la piccola normalità del reale in un equilibrio perfetto di poesia.
Non è mancato l’omaggio del Prefetto Emanuela Saveria Greco e del Sindaco di Pesaro Matteo Ricci che ha preceduto la lectio del Maestro, Trovare le parole: segni e suoni per raccontare le emozioni.
Al termine dell’evento ai microfoni di Uniamo Carlo Pagnini ha detto: «questo riconoscimento per me è stato come un miracolo. Qualcosa di inatteso, di impensabile. Mi sono sentito onorato e dubito persino di meritarlo». Nell’intervista ha raccontato la genesi della sua scrittura, riflettendo anche sul rapporto con la città di Pesaro e con Odoardo Giansanti, quel Pasqualon, poeta dialettale di cui è erede, che agli inizi del ‘900 declamava versi sul palcoscenico a cielo aperto dei vicoli cittadini. In effetti, anche la poesia di Pagnini ha carattere di teatro evidente nella piena corrispondenza tra testo ed esecuzione vocale. «Molti scrivono – precisa il Maestro – andando a cercare le parole giuste, invece se si scrive una poesia andando a cercare il sentimento, quello giusto, non si può sbagliare. Io posso dire…» e ha continuato recitando Dó perle peschèd e pers.
Un pescador de perle el s’è tufèd, tra tant pericol, in tel mèr apert.
Quant l’e arvnud só, seben ch’ann’era espert, t’un’ostriga dó perle l’à truvèd.
Colme d’ felicità i le guardèva mentre sa un’onda el mèr i le archiapèva. I le à vést a gì gió fin in tel fond senza pudéj fè gnent. E’ stèd un lamp. T’un atim l’è pasèd dal ris al piant.
Paréva i fóss caschèd adoss el mond. Che dolor ch’ l’avrà avud!
An poss pensèi. Ma mè m’è capitèd sa dó gemei.
Un pescatore di perle si tuffò, / fra tanti pericoli, in mare aperto. / Riemerso scoprì che pur inesperto / aveva pescato due perle, in un’ostrica. / Le guardava, felice, / e un’onda del mare se le riprese. / Le vide scendere, giù, sempre più giù, / senza poter far niente: un lampo. / In un istante passò dal riso al pianto, / il mondo gli era caduto addosso. / Immagino che dolore, ma non posso pensarci. / A me è capitato con due figli, gemelli.
Poi la chiusa, feroce e risolta: «non ho vissuto nell’agio di trovare la via giusta, per me era sempre la via giusta perché mi adattavo, e la vita è stata una cosa meravigliosa».