La conversazione a voci spente eppure vivissime tra l’Università di Urbino e il Magnifico Rettore prosegue nelle stanze di Palazzo Passionei. In questo luogo d’incanto abita la nuova mostra di Uniurb, Carlo Bo. Gli anni dal 1911 al 1951. La letteratura, le città, la vita, che racconta i primi quarant’anni di vita di Carlo Bo.

“Dieci tappe – spiega Tiziana Mattioli coordinatrice del gruppo di lavoro – composte da documenti originali, fotografie, pubblicazioni spesso in prima edizione, dediche, narrazione, che si distinguono per elementi di pregio assoluto, come, per fare un esempio, la prima tesi di laurea, mai pubblicata, la dedica del volume su Rivière ai genitori, il permesso di leggere libri messi all’indice, o i taccuini di Marise, o lettere scritte da Bo agli amici e ricevute dagli amici, e tanto altro”.

È possibile visitare l’esposizione dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 13.00, martedì e giovedì dalle 14.00 alle 17.00, fino al 25 gennaio 2022. Le informazioni sulle modalità di prenotazione e di accesso sono disponibili sul portale di Ateneo.

 

Professoressa Mattioli, l’omaggio dell’Università di Urbino a Carlo Bo prosegue e trova spazio in una nuova mostra!

Una nuova mostra, sì, che offriamo all’attenzione del pubblico con particolare soddisfazione, per la qualità e la rarità dei materiali, e per l’allestimento estremamente curato, e lucente, dentro riverberi architettonici e paesaggistici che incantano, nelle sale di Palazzo Passionei. Una mostra che appunto riceve il testimone da quella che aveva aperto l’anno – e che si è chiusa a giugno, poi trasferita nel settembre a Sestri Levante – e quel dialogo allarga all’intera geografia reale e interiore che Bo ha vissuto, e in un certo senso costruito nei primi quarant’anni della sua esistenza e del suo lavoro, che appunto, dalla nascita, giunge al primo tempo del suo rettorato, sino al 1951, quando si accende la collaborazione con Giancarlo De Carlo e si dà avvio alla riedificazione dell’Università e della città.

 

E mi piace dire che dobbiamo al nostro Magnifico Rettore, Professor Giorgio Calcagnini, il suggerimento di immaginare, sin dal dicembre scorso, una mostra carismatica, che pienamente rappresentasse la Fondazione Bo nell’anno ventennale della morte del grande Rettore, ponendoci, con questa, a fianco delle non poche altre iniziative che, per la stessa ragione e con medesima ispirazione, hanno accompagnato questo tempo di ringraziamento e di memoria, in Ateneo.

 

Da un input che ci era giunto dall’Accademia di Belle Arti, sul solo tempo del “Frontespizio”, che significa principalmente gli anni fiorentini di Carlo Bo quando là era studente in Lettere Moderne, abbiamo poi voluto pensare, pur senza trascurare il suggerimento, a un più ampio progetto che corrispondesse con maggior vicinanza agli scopi statutari della Fondazione, ma anche alle infinite possibilità di “racconto” che il patrimonio librario e archivistico a nostra disposizione rappresentava e rappresenta con meravigliosa larghezza, anteriormente e ben oltre quella stagione, soprattutto cercando di comprendere quella “rivoluzione copernicana” che è stato il passaggio di Bo dallo studio solitario ed autosufficiente all’insegnamento, e quindi alla responsabilità di governo.

 

In seno al Comitato Scientifico si è così individuato un gruppo di lavoro con varie componenti: dal Consiglio d’Amministrazione della Fondazione, Salvatore Ritrovato; dalla custodia del fondo librario Elena Baldoni; dalla custodia dell’archivio Ursula Vogt; come ospitalità all’Accademia di Belle Arti, Giorgio Tabanelli. A me è stato chiesto di coordinare il lavoro di questa cordata che, come ho detto qualche volta, rappresenta quasi quattro generazioni, e quindi quattro visioni del mondo e della letteratura, del pensare e del fare.

 

Una complessità, e una ricchezza, potenziata dalla sollecitudine affettuosa di Antonella Negri, Marcella Peruzzi e Roberto Danese. E non ci è mancato l’aiuto di tutto lo staff del Rettore, e di tanti amici, che nomino qui, me lo permetterete: Barbara Forlucci, Tiziana Foglietta, Donatello Trisolino, Tiziano Mancini, Emanuela Braico; Ermindo Lanfrancotti, Francesca di Ludovico, Paolo Semprucci, Walter Raffaelli, e Francesca, Fabrizio, Vito, Roberta.

Quali sono stati gli step successivi?

Da gennaio, ci siamo messi al lavoro, ed è stato subito chiaro per tutti che il filo narrativo dovesse restare nelle mani di Ursula Vogt, per tutte le ragioni di competenza e di testimonianza che si possono facilmente indovinare, per la sua lunga vicinanza al lavoro e alla persona del Rettore.
Sua è anche l’idea di tracciare come un secondo racconto di sfondo storico ai primi quarant’anni di vita di Carlo Bo, anni segnati da due guerre mondiali e dal lungo ventennio del regime, dalle leggi razziali e dalla pandemia di influenza spagnola. Diciamo, una contestualizzazione, a fronte di quell’assoluto che sempre è la pagina di Bo, così refrattaria alla cronaca e ai fatti quotidiani per l’impegno etico, morale, di andare all’essenza delle cose, al cuore dell’uomo.

 

Come si costruisce il racconto espositivo?

Abbiamo cercato, per tanti aspetti anche per forza inconscia, come guidati da una motivazione segreta, di costruire la mostra come una “lettura”: qualcosa che procedesse “per tracce”, in un certo senso per essenze, e fosse comunque quella stessa ragione essenziale, irriducibile, che è stata la lettura nella vita di Bo. Lui diceva: “la condizione necessaria di qualunque soluzione intellettuale e spirituale”. Per questo, nell’allestimento, da un primo incontro che lo spettatore avrà con la figura e la parola di Bo, attraverso filmati di testimonianza e interviste che aprono il percorso espositivo, ci siamo incamminati verso un racconto di vita e di lavoro, di frequentazioni, di amicizie, di letture, di scrittura – sull’orizzonte della storia – che ogni visitatore può ripercorrere, in sintesi, anche nella brochure che funge da guida al nostro tracciato.

 

Sono dieci tappe, composte da documenti originali, fotografie, pubblicazioni spesso in prima edizione, dediche, narrazione, che si distinguono per elementi di pregio assoluto, come, per fare un esempio, la prima tesi di laurea, mai pubblicata, la dedica del volume su Rivière ai genitori, il permesso di leggere libri messi all’indice, la prima lettura, nel Convento di San Miniato, di “Letteratura come vita” (1938) o anche i taccuini di Marise, e le lettere scritte da Bo agli amici o ricevute da loro, e tanto altro…
Infine, in una terza, ultima piccola stanza (con le porte intarsiate simili a quelle di Palazzo ducale, e cassettoni a soffitto a formare un cielo azzurro e oro) la ricostruzione dello studio urbinate di Carlo Bo, con una serie di oggetti iconici, se non addirittura simbolici: le sue poltrone, la macchina da scrivere, la radio, gli antichi sigari toscani, il bastone da passeggio.
Oggetti, sì, ma ad un tempo vere presenze…

Non è dunque un caso che la mostra sia stata allestita in un luogo di straordinaria bellezza: Palazzo Passionei.

No, non un caso! Una mostra dedicata a Carlo Bo, nelle stanze della Fondazione a lui dedicata, dove vive e palpita la sua presenza e l’immensa eredità del suo archivio e dei suoi libri, può sembrare un paradosso. È invece, o almeno vuol essere, un’esperienza totale. Da un lato, è anche la visita a un Palazzo che esprime al massimo grado quel plusvalore che a Urbino esiste come dialogo reciprocamente salvifico tra architettura e paesaggio, dall’altro è un percorso simbolico, appunto, per tracce, per approfondimenti lenticolari, o per grandi squarci su una storia che è, sì, anche individuale, ma che è storia tout court: il grande schermo della storia del ‘900 che Bo ha quasi per intero attraversato, e potremmo anche dire che ha culturalmente deciso.

 

Per questo il nostro racconto ha con ogni cura cercato di evitare la cronaca, la somma dei piccoli o grandi fatti e dei tanti nomi e documenti, perché volevamo uno scandaglio profondo non solamente della genesi ma della prima e piena formazione letteraria e umana di Bo, e di quel transito radicale che è stato per lui il passaggio dallo studio solitario e autoriale, all’insegnamento vissuto come impegno civile e quindi all’immaginazione non solo di una nuova e più viva e partecipe, libera Università, ma anche, come era stato per Federico di Montefeltro, e proprio attraverso la nuova cultura, la fondazione di una vera città e di una giusta civiltà. Quella che noi chiamiamo città-campus, e che dovremmo dire: città ideale, alla seconda potenza, o nella seconda sua rivelazione.

 

È comunque, il nostro, un percorso espositivo, onorato della presenza, all’inaugurazione, dei nipoti di Bo: Mercedes, Carla, Angelo e Luisa, Francesca, e dalla narrazione critica del Professor Stefano Verdino, che non si rivolge solo agli specialisti, che comunque troveranno qui molte cose importanti e attraenti, ma che vuole aprirsi alla città, ai giovani, a chi voglia rileggere assieme a noi anche la storia luminosa di questo nostro Ateneo, attraverso una eredità che ancora ci guida e ci sollecita, e a cui guardiamo, grazie anche al Rettore Calcagnini, come ad un esempio da imitare.

Come immagina il futuro della Fondazione Carlo e Marise Bo? 

Noi ci auguriamo che la Fondazione possa continuare, per il futuro, ad essere ciò che oggi è: un luogo di alti studi, di ricerca, di conservazione e di acquisizione di nuovi archivi. Insomma: un mondo, dentro quel vasto mondo che è l’Ateneo di Urbino.

 

 

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