Enzo Torcoletti e Tiziana Mattioli

 

I cortili monumentali dell’Università di Urbino diventano spazi espositivi d’eccezione! A inaugurare il nuovo progetto di Uniurb, orientato alla divulgazione d’arte e voluto fortemente dal Rettore Giorgio Calcagnini, è la mostra Cultura, Vittoria sul Tempo di Enzo Torcoletti, curata da Tiziana Mattioli e Donatello Trisolino.
Fino alla primavera del 2024. le sculture dell’artista italo-americano si offriranno in visione al pubblico nelle corti d’onore dei Palazzi: Bonaventura in via Saffi 2, Battiferri in via Saffi 42, Passionei in via Valerio 9, e San Girolamo in via San Girolamo 8.
L’intervista al Maestro Enzo Torcoletti.

 

Maestro, la disposizione alla classicità occidentale della sua arte nasce a Fano, negli anni della sua prima formazione?

Sì, nasce forse nella città che ha visto all’opera Vitruvio il legame con l’arte classica. Ma si conferma anche poi andando in giro per l’Italia. Qui, per ogni dove, puoi vedere queste sculture senza testa, senza mani, senza braccia… Vivi sensazioni molto forti, perché io ho sempre avvertito come il corpo, anche senza queste parti, comunque parli con un suo pieno linguaggio. In una scultura, quando c’è il volto, le persone cominciano a guardare quei tratti, perché il volto ha la sua forza, ma è una maschera. Il corpo ha una maggiore verità, per me, e specialmente il corpo femminile, con le sue luci e le sue ombre, con le diversità d’aspetto che si mostrano cambiando il punto di vista. Sì, le Dee sono più importanti degli Dei.

Stiamo raccontando un’arte distante da un’ispirazione maschile, ma prossima all’uomo e alla sua natura frangibile?

Forse la mia scultura proviene anche dalla preistoria… prima dei maschi! Forse al contrario proviene dalla storia dell’arte. L’arte della Mesopotamia mi interessa, e l’arte pre-greca. Ma anche l’Egitto, che non abbiamo ancora superato né in scultura né in architettura. Ma io preferisco un’arte più vicina all’uomo, non al superumano dei Faraoni. Dicevo, poco fa, che trovo molto interessanti i reperti archeologici: i frammenti, piuttosto che la figura intera. Questi mostrano, nelle loro fratture, anche le caratteristiche della materia. Io pure cerco, nello scolpire la pietra, di lasciar sopravvivere le sue caratteristiche naturali, quel linguaggio originario di consistenza, colore, quelle antiche tracce di vita: insomma, l’impronta della natura.

 

Libere dai propri contorni, le sue opere sembrano uno straordinario inno al “non compiuto”.

Provate a pensare alla Nike di Samotracia. Anche se potessimo completarla, per un fortunato ritrovamento, con le parti mancanti, non aggiungeremmo nulla né alla sua bellezza né al suo racconto. C’è poi anche un’altra riflessione possibile, ovvero che guardando una scultura “non finita” (e sul “non finito” sono state scritte pagine e pagine di critica d’arte), chi guarda è incluso nell’opera, partecipa della sua realizzazione. Le sculture di Bernini sono incredibili per me, per come sono state realizzate, per la loro perfezione. Però, dicono già tutto; la storia che raccontano è completa… Io voglio includere chi guarda, voglio che lo spettatore abbia qualcosa da fare, qualcosa da finire anche solo nei modi dell’immaginazione.

A tutto questo vuole aggiungere una riflessione sulla materia e sullo stato nuovo che la sostanza fisica consegue nelle sue sculture?

A tutto questo io aggiungo anche il piacere di trovare per caso, nei campi arati, ad esempio, o lungo i fiumi, le pietre da scolpire, perché penso che il marmo che esce da una cava, così ben squadrato, sia già in un certo senso un’opera finita. A volte devi dare una botta col martello per cambiare il suo discorso già concluso. Invece le pietre già rotte, già scalfite, le guardi e quasi ti dicono esse stesse che cosa vogliono diventare. Perché la pietra ti lascia libero di fare delle cose, ma altre no. Se ha una crepa, magari si spacca… ma tu puoi coniugare la tua idea con quella crepa, con quella falla, con l’incidente che può succedere. Questo è l’atto creativo. È un dialogo con la pietra, col bronzo, con la creta… Anche un duello. A volte vince la pietra, a volte lo scultore. Certo, ogni pietra ha il suo linguaggio. A me piace soprattutto la pietra viva: l’arenaria, o la pietra di Vicenza, calcarea, entrambe con tracce visibili di esistenze passate: conchiglie, foglie, insetti…

Una pietra viva e piccola…

Questa pietra la lavori, e rimane sempre con te, per questi incontri. E così fai sculture più umane, di piccole proporzioni… Quando le sculture sono più alte di due metri, non sono più intime. Le piccole invece te le porti a casa, vivono il quotidiano con te. Ti danno gioia e ti consolano. Le altre restano staccate, irrigidite nella loro testimonianza monumentale. In America, da tempo vanno di moda sculture tecnologiche, luminose… un luna park. Per gioco, ho provato anch’io a fare una scultura luminosa, ma se manca la corrente… Invece la mia scultura funziona sempre, basta il sole… anche la luna…

È nato in Italia e ha vissuto prima in Canada e poi in Florida. Quale senso ha per lei tornare nella terra d’origine ed esporre le sue opere nei luoghi dell’Università di Urbino?

A volte penso che io, come emigrante, ho fatto scultura portando con me l’origine: quel seno. Seno materno: la cultura della Grecia, dell’antichità romana… il Rubicone… Fano… Vitruvio… Alberti… Bramante… Questo. Essere a Urbino, è questo.

 

 

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