Dal 24 al 26 ottobre 2024, Uniurb ha ospitato la 65a Riunione annuale della Società Italiana di Economia che ha portato a Urbino oltre 500 studiose e studiosi provenienti dall’Italia e dall’estero. Gli scenari macroeconomici attuali e futuri e le sfide globali a cui l’Italia e l’Europa devono, di necessità, far fronte sono stati al centro della discussione scientifica.
«Siamo orgogliosi di essere stati protagonisti di questa iniziativa» ha commentato il Rettore, Giorgio Calcagnini. «Si tratta di un riconoscimento importante per la nostra Università che ha potuto, tra l’altro, ospitare tanti colleghi che si sono formati presso i nostri Dipartimenti e che hanno intrapreso percorsi professionali di successo».
L’evento è stato promosso e coordinato dal Dipartimento di Economia, Società, Politica e dal Comitato Organizzatore Locale composto da Germana Giombini, Giovanni Marin, Agnese Sacchi e Giuseppe Travaglini.
In una delle tre giornate di studio abbiamo intervistato il Presidente della Società Italiana di Economia, Mario Pianta, che per oltre vent’anni ha insegnato Politica Economica nel nostro Ateneo. 

 

Professor Pianta, ha insegnato per molto tempo nel nostro Ateneo. Che effetto fa tornare a Urbino?

Tornare a Urbino è sempre un piacere. Urbino è bellissima, e c’è una comunità di ricercatori con cui ho continuato a collaborare anche dopo vent’anni di insegnamento in Ateneo. Questa volta sono tornato non da solo ma con cinquecento altri colleghi: la metà dei soci totali della Società Italiana di Economia che si sono avventurati fin qui, nonostante le difficoltà logistiche e meteorologiche. Abbiamo cinquecentoquaranta paper su temi che vanno dalla teoria economica, alle questioni di policy, alle sfide e, speriamo, che la comunità locale e gli studenti di Urbino siano interessati ad aprirsi alle idee e al dibattito che sarà molto vivace.

Nel complesso scenario dell’economia globale, l’Italia a quali rischi va incontro e verso quali opportunità potrebbe tendere?

In questo contesto macroeconomico di austerità, in questa stagnazione lunga, in questa situazione internazionale incerta, scivoliamo sempre più verso un ristagno che diventa veramente pericoloso sia sul piano politico, sia sul piano economico e sociale. Il rischio, che dobbiamo affrontare e documentare nelle nostre ricerche, è di avere un’Italia che è sempre maggiormente in declino produttivo, con un’industria più fragile che si perde e viene lasciata indietro dagli sviluppi tecnologici, in particolare dell’Asia e della Cina, e da divari territoriali sempre più forti: la questione dell’autonomia differenziata è, di fatto, molto problematica perché rischia di spezzettare il sistema delle politiche pubbliche in modo drammatico, specie nella sanità.

 

Poi abbiamo una gravissima, strutturale, precarizzazione del lavoro, e salari reali che sono diminuiti del 10% in dieci anni, mentre in Germania sono aumentati del 10%. Quindi abbiamo un processo di impoverimento che riguarda un po’ tutti: ce ne rendiamo conto nelle difficoltà della vita quotidiana, e un aumento delle disuguaglianze. Occorre perciò recuperare un modello di organizzazione della politica, della distribuzione del reddito che sia più equo, più giusto e meno diseguale.

Le imprese italiane, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, devono fare i conti con l’inflazione e il rialzo dei tassi. In che modo il comparto produttivo può uscire dall’impasse?

Ci sono due tipi di imprese piccole: quelle che hanno capitali, tecnologie, conoscenze, mercati e che funzionano perché hanno una produttività elevata e sono in grado di interagire in un sistema strutturato, e poi ci sono imprese marginali che hanno bassissima produttività e, di fatto, sopravvivono in termini economici soprattutto perché pagano salari bassissimi. In Italia ci sono milioni di imprese che non hanno neanche un lavoratore dipendente assunto a tempo indeterminato, e questo è un pezzo di economia marginale che è una palla al piede del resto del sistema economico: abbassa la produttività, abbassa il dinamismo. Abbiamo bisogno di imprese che sappiano investire, non giocare con la finanza ma investire nelle proprie capacità produttive, nelle competenze dei lavoratori, ma soprattutto che escano dalla dimensione micro.

 

Non si può pensare, nel 2024, di funzionare in un’economia mondiale partendo da un gruppetto di poche persone che hanno conoscenze limitate. È importante aggregarsi, avere reti e strutture produttive più solide, soprattutto integrate dentro filiere produttive importanti in cui l’elemento centrale è la capacità di imparare. Se le imprese continuano a non imparare, a non accumulare conoscenza, a non fare innovazione, a non utilizzare in modo intelligente le opportunità del digitale, dell’intelligenza artificiale e, soprattutto, a non adattarsi alla transizione ecologica – che è la nuova sfida che abbiamo di fronte – è chiaro che il futuro è quello di un declino, di una marginalità sempre più grave.

Intelligenza artificiale, data analytics, cloud computing: a che punto sono le imprese rispetto alla transizione digitale?

Fino ad oggi le imprese hanno adottato sistemi tecnologici digitali senza, però, riuscire a innovare in modo strutturale. Infatti, l’Italia è molto indietro rispetto ad altri Paesi europei dal punto di vista della capacità di essere presente nei settori dei servizi avanzati qualificati. Non abbiamo una grande impresa informatica, non abbiamo una grande impresa elettronica o di consulenza aziendale, veniamo invasi dall’hardware cinese, dal software americano e dalle piattaforme.

 

Sulle piattaforme tutta l’Europa è in ritardo, abbiamo una concentrazione di potere enorme in Google, Microsoft, Amazon e così via, che ha come contraltare soltanto in Cina la presenza di piattaforme sostanzialmente simili. Quindi, siamo schiacciati tra la capacità degli Stati Uniti di innovare radicalmente in questo ambito – ChatGPT e l’ultima delle enormi innovazioni che lanciata improvvisamente sul mercato stravolge i comportamenti di tutti – e i cinesi che hanno una capacità analoga. Ecco, l’Europa non ha trovato una strada sua che sia coerente con la propria storia, con la sua competenza, pertanto dobbiamo riuscire a trovare una chiave in cui le potenzialità delle tecnologie si sposano con i contenuti, le relazioni sociali e i valori etici che abbiamo.

Il Governo taglia il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) alle Università. Che idea si è fatto della manovra?

Il contesto di austerità che abbiamo descritto prima costringe i Governi a tagliare. Purtroppo, il Governo italiano taglia in primo luogo l’Università e la ricerca pubblica che sono invece un polmone, che creano le competenze dei giovani. L’Italia è uno dei Paesi europei con il più basso livello di laureati nella forza lavoro. Su questo la Società Italiana di Economia ha promosso un documento che è stato firmato da ottanta società scientifiche italiane: dai fisici ai matematici, ai biologi, ai medici. Il documento chiede al Governo di invertire questa rotta che impoverisce non solo l’Università ma tutto il Paese, non mette a disposizione della nazione le competenze dei giovani e indebolisce una ricerca che, tutto sommato, nell’ambito pubblico ha migliorato molto la propria posizione a livello internazionale.

 

In Italia, in 10 anni, 15.000 ricercatori sono emigrati all’estero. Parliamo tanto dell’immigrazione dei disperati che fuggono dalle aree di conflitto del sud del mondo e noi siamo il Paese che fa emigrare i suoi cervelli migliori, perché non è in grado di offrire lavori e salari dignitosi. Ecco, questo è un nodo centrale, e la politica dell’Università è fondamentale per tenere insieme un sistema che formi le persone e poi le avvii verso traiettorie di lavoro che siano coerenti.

Quali sono i rischi e quali le previsioni?

È possibile che le cose vadano peggio prima che vadano meglio perché le difficoltà emergono da molti aspetti diversi, però è importante che noi teniamo le posizioni. E il fatto che l’Università pubblica, l’Università di Urbino continuino a fare il proprio lavoro, a svolgere un ruolo importante nell’insieme della società, l’idea che è possibile tenere fermi i valori in cui crediamo, l’idea di superare le disuguaglianze, di offrire opportunità ai giovani, di essere coerenti rispetto alla necessità di fare i conti con la transizione digitale ed ecologica mantenendo la storia e le caratteristiche della nostra società, questa è la scommessa che abbiamo davanti: di un’economia che sia coerente con i valori della costituzione, con le esigenze del nostro paese e con le prospettive dei giovani.

 

 

 

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