A tracciare il segno conclusivo dello straordinario ritratto corale di Carlo Bo, dipinto in molte e diverse cromie dal progetto internazionale Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito, è Massimo Raffaeli, filologo, critico letterario, voce di Rai Radio 3.
Un contributo importante che inquadra i modi della prosa di Bo e integra la lettura di alcune tra le più alte pagine del Magnifico: Il vento del Montefeltro, nell’interpretazione offerta al progetto ideato e coordinato da Tiziana Mattioli e promosso nell’ambito del Prorettorato allo Sviluppo di Partenariati Strategici Nazionali e Internazionali, e Il Palazzo Ducale di Urbino: una visione aperta e libera, colonna sonora portante della mostra di Uniurb Carlo Bo, Il Palazzo Ducale. Parole e immagini nelle stanze.

 

 

Massimo Raffaeli

Professor Raffaeli, l’istinto o il caso hanno determinato il suo “incontro” con Carlo Bo?

Ho l’impressione di avere sempre avuto presente il nome di Carlo Bo, cioè che fosse per me fin da ragazzo di senso comune, ma se guardo indietro mi accorgo che ci è voluto del tempo perché dessi un corpo alla sua identità, così risonante nella letteratura italiana. Ho incontrato il suo nome a Bologna, durante gli anni dell’Università, e ho vissuto un sentimento anche in questo caso paradossale, contraddittorio, proprio perché sentivo lontanissimi i modi della critica che proponeva: io ho avuto una formazione d’ordine filologico stretto, quindi per me una pagina esisteva solo se costellata di rilievi storico-linguistici, esplicitamente filologici, storico-letterari in senso lato, invece la pagina di Bo non prevedeva niente di tutto questo. Tuttavia, ecco la contraddizione o se vogliamo il fertile paradosso, la sua pagina letteralmente, etimologicamente, mi interessava, mi coinvolgeva e sentivo come la testualità di cui stava trattando toccava sempre la sostanza umana, sia che trattasse la poesia di Lorca o l’ermetismo dei compagni di via – da Luzi al grande Betocchi – sia che alludesse ai classici della letteratura italiana, francese o spagnola. L’immagine che subito ho avuto della prosa di Carlo Bo è di un lievito capace di dare vita a una materia inerte, a un insieme altrimenti immobile di parole.

“Verità” è una delle parole che ricorrono nella prosa di Bo.

Sono arrivato alla conclusione – può far sorridere tanto è semplice, persino tautologica – che nel secolo del tecnicismo, della letteratura come attività separata, reclusa, addirittura specializzata, Carlo Bo, che pure era stato il battistrada degli ermetici, chiede alla letteratura di dire la “verità”, parola in sé temeraria e persino impronunciabile ma che pure noi sentiamo la più umana. Perché se dedichiamo il nostro tempo, le nostre energie a leggere libri, a leggere e ad ascoltare parole scritte, è perché non ci accontentiamo della bellezza reclusa e asfittica di quelle stesse parole, ma chiediamo ad esse una sostanza umana, chiediamo appunto una “verità”. Ed è la verità che Bo cerca negli scrittori, senza mai tener conto delle gerarchie convenute e senza mai distinguere tra maggiori e minori, perché la sua è una prospettiva magnanima: è convinto, cioè, che anche l’autore di un solo libro possa leggere il mondo e farci vedere la realtà come nessun altro ha mai fatto prima di lui, dal suo specifico punto di osservazione. Nel secolo in cui, addirittura, qualcuno ha parlato di morte dell’autore, nel secolo della signoria del testo e della dittatura dei significanti sui significati, Carlo Bo afferma che il luogo della letteratura è invece la coscienza.

Ha conosciuto personalmente il Magnifico?

Ho avuto la fortuna non dico di conoscere ma di incontrare alcune volte Carlo Bo, sempre in situazioni pubbliche e molto formali, quando esercitava la funzione di Rettore Magnifico dell’Università di Urbino. Ricordo in particolare, credo fosse il ’98, quando lessi una mia comunicazione a un convegno presieduto da Bo e organizzato da Ursula Vogt per ricordare Leone Traverso. Ebbene, Bo aprì il convegno ma la cosa che mi colpì una volta per sempre fu il suo gesto di alzarsi – con in mano neanche un foglio, una penna, nulla, se non il suo sigaro spento che come un talismano lo seguiva – e formulare lì per lì, improvvisando, un discorso così impeccabile e compiuto da sembrare già scritto. La sua era una parola caratterizzata dalla concretezza di quanto è impresso sulla pagina ma nello stesso tempo dalla leggerezza di ciò che nel testo è volatile senza necessariamente disperdersi.

 

Beninteso, non si tratta di oratoria ma di una parola naturalmente dialogica, una parola “eucaristica”, per così dire, cioè fatta per essere spartita, condivisa, perché sa tenere insieme il rigore della dimensione scritta e la fragranza tipica dell’oralità: questa attitudine di Bo resta un caso unico, stando alla mia esperienza e poi alla mia personale mitologia. Dunque un modo giusto per rammemorare Bo e per renderlo presente è stato il progetto Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito, ideato e curato da Tiziana Mattioli: si è trattato di “leggere” Bo nell’accezione più elementare del termine e di cogliere l’elemento istitutivo di una oralità passata per iscritto, infine di porgerla a chi si disponga ad ascoltarla.

In apertura del progetto internazionale ha letto Il vento del Montefeltro. Perché ha scelto di interpretare quel testo tra i tanti?

Per lavoro sono abituato non solo a scrivere ma, collaborando da molto tempo con Radio 3 Rai, mi è capitato e tuttora mi capita di leggere in prima persona dei testi che non sono sempre di facile approccio, i quali si sottraggono alla declamazione perché troppo oscuri nella formulazione, fatti di materiali pesanti, oppure perché troppo leggeri o aerei. È un’impresa che può essere vana. Leggendo invece, e ad esempio, Il vento del Montefeltro provo una rara soddisfazione perché ne percepisco il ritmo “naturale”, profondo. Sento che vi pulsa il ritmo stesso della vita, scandito nel suo battito elementare, ed è quello che Bo da sempre cercava nella letteratura.

Lo stesso battito che ha emozionato la comunità universitaria di Uniurb quando, nel giorno dell’inaugurazione del nuovo anno accademico, ha interpretato Urbinate per sempre.

Quella lettura per me è stata un privilegio, il privilegio di restituire simbolicamente Bo alla sua Università. Quando mi chiedo qual è il suo messaggio e perché è così importante che l’Università si intitoli a Carlo Bo, e perché lo è altrettanto che il cuore dell’Università sia la Fondazione che porta il nome suo e di Marise Ferro, mi rispondo così: è importante perché il lascito, il messaggio, di Carlo Bo è universale. Così come non distingueva tra alto e basso, tra maggiore e minore, Bo trovava altrettanto anacronistiche e inessenziali, già negli anni ’40 e ’50, le tradizionali distinzioni tra cultura scientifica e cultura umanistica, e qui basterebbe pensare a come ha saputo farsi committente di De Carlo perché ridisegnasse e integrasse lo spazio urbano dell’Università e della Città medesima di Urbino. Non ha fatto distinzioni tra quanto apparteneva alle cosiddette scienze esatte o alle scienze umane, per lui il progetto era uno solo e questa concomitanza, questa osmosi caratterizza appunto la Polis di Urbino e la sua Università. Per Carlo Bo esisteva davvero la Città Ideale o Universale, non era solo la tavola in Palazzo Ducale attribuita al Laurana.

Per Rai Radio 3 ha curato di recente la produzione di una puntata de Le meraviglie dedicata a Palazzo Passionei, sede della Fondazione Carlo e Marise Bo. Quali nuove suggestioni ha generato questo straordinario racconto?

Si tratta del lavoro più recente che ho dedicato a Carlo Bo. Nell’occasione, io che presumevo di avere perfettamente chiara la rilevanza del suo grande patrimonio, via via che preparavo il programma e lo registravo in loco, ne ho scoperto anche tutta la ricchezza nascosta, non immediatamente percepibile. Mi viene in mente una figura retorica, la sineddoche e cioè una parte per il tutto: ecco, per conoscere Bo, la sua Università, la Polis urbinate, bisognerebbe cominciare a conoscere il luogo sul serio speciale che è la Fondazione Carlo e Marise Bo dove c’è una convivenza unica, direi, tra la più grande biblioteca privata mai esistita in Italia e un bene pubblico, quella stessa biblioteca, un bene a disposizione della comunità, degli studenti, degli studiosi. La bellezza del luogo è tutt’uno con il paesaggio urbano, la topografia, la storia e, in sezione, quello spazio è tutta l’Università, tutta la Polis di Urbino: è un luogo aperto ed è capace, nello stesso tempo, di testimoniare e tutelare una grande eredità.

 

Massimo Raffaeli. Immagine: Claudia Greco.

 

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