Lo scorso gennaio abbiamo aperto il campo alla promessa di pubblicare ogni 25 del mese le molte pagine di Carlo Bo che accolgono la sua ininterrotta lezione su Urbino, il suo discorso d’amore sulla città dell’anima.
Il testo che accompagna il maggio ventoso del 2021 è Quando Federico da Montefeltro cercò di sedurre le Muse. Pubblicato il 12 luglio 1989 sul Corriere della Sera col titolo Visitare Urbino, e ristampato in Carlo Bo, Urbino, “il nuovo Leopardi/ grafica/8°”, ha trovato posto nel 1997 tra i fogli del volume curato da Gilberto Santini: Carlo Bo, Parole sulla città dell’anima, Urbino, Assessorato alla Cultura, e qualche anno più tardi in Carlo Bo, Città dell’anima. Scritti sulle Marche e i marchigiani, a cura di Ursula Vogt, Ancona, Il lavoro editoriale 2000.
Ad interpretare magistralmente le pagine che Bo dedica alla sua patria d’elezione e al Duca di Urbino è Lucia Ferrati, professionista della lett(erat)ura ad alta voce, operatrice culturale presso la Fondazione Rossini di Pesaro, ideatrice ed organizzatrice di eventi culturali in collaborazione con enti pubblici e privati, già coordinatrice della Rete teatrale di Pesaro e Urbino – Amat.
Partner del progetto internazionale Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito – ideato e coordinato da Tiziana Mattioli, docente di Letteratura italiana dell’Ateneo urbinate, e promosso nell’ambito del Prorettorato allo Sviluppo di Partenariati Strategici Nazionali e Internazionali – Lucia Ferrati ha approfondito l’argomento nell’intervista che segue.
Per ascoltare e leggere i testi è possibile accedere al sito dedicato al progetto cliccando su eventi.uniurb.it/urbinate-per-sempre
Dottoressa Ferrati, la partecipazione al progetto “Urbinate per sempre” le ha consentito di dare continuità a un dialogo mai interrotto con Bo. Come ha accolto l’invito a prenderne parte?
Ho accolto l’invito di Tiziana Mattioli con molta gratitudine. Io non sono di formazione urbinate: ho studiato a Bologna, sono stata allieva di Ezio Raimondi e Maria Luisa Altieri Biagi, eppure anche negli anni del mio percorso universitario Carlo Bo è stato sempre presente in ogni tipo di consultazione, in ogni tipo di studio. Per cui, è stato veramente un grande piacere leggere una delle sue scritture che preferisco da sempre: Quando Federico da Montefeltro cercò di sedurre le muse.
Peraltro, di Federico ricorrerà, il prossimo anno, la celebrazione del secentesimo anniversario della nascita che cadrà il 7 giugno, tanto che questa lettura quasi coinciderà cronologicamente con il compleanno importante del Duca di Urbino, signore di quello che io definirei il gran teatro dei saperi, delle arti, della bellezza tutta italiana che è Palazzo Ducale. Questo miracolo architettonico, questo palazzo-città rimasto indenne, oltretutto, nei secoli, che ha saputo raccogliere intorno al Montefeltro le eccellenze, le intelligenze di cui siamo ancora eredi e sicuramente debitori.
E Bo, che è stato anch’egli un Magnifico signore di questa città di adozione, ha saputo come Federico amare Urbino ed è stato il suo grande erede, certamente per una visione comune rispetto alla città, che per entrambi è stata città ideale, città dello spirito, città dell’anima.
Credo che Urbino profumi ancora profondamente del sogno di Federico, ma anche del sogno di Carlo Bo.
Con Pietro Conversano nel 2011 ha ricostruito la biografia del Magnifico, illuminando fatti e memorie che abbiamo felicemente accolto come improvvise scoperte. Da quali suggestioni è nata l’idea del videoracconto Vita di Carlo Bo?
Il progetto Vita di Carlo Bo si deve ad un committente illuminato: Marcello Di Bella, già Assessore alla cultura della Provincia di Pesaro e Urbino, che allora ricopriva il ruolo di direttore artistico di una magnifica rassegna di filologia intitolata Il salone della parola, che si svolgeva Pesaro.
Fu sua l’idea di ricostruire in prossimità del centenario della nascita di Bo il suo percorso biografico.
Dopodiché, grazie a tutto il materiale documentario e fotografico che fu messo, molto gentilmente e molto generosamente, a disposizione dalla Fondazione Carlo e Marise Bo, con Pietro Conversano riuscimmo a ripercorrere le tappe della vita del Magnifico.
Dall’infanzia ligure ai primi cenacoli fiorentini, che sono veramente lo “squadernamento” di un’Italia ancora poco conosciuta, poco nota, poco studiata sulla quale poggia, invece, tutta la radice della nostra cultura contemporanea. Dagli anni della guerra al matrimonio con l’amore della sua vita, Marise Ferro, fino all’incontro fatale, in una giornata di nebbia, con Urbino, che ebbe come conseguenza un grandissimo vagheggiamento – condiviso con Giancarlo De Carlo – che fu non solo un sogno universitario ma anche urbanistico.
Questa biografia per immagini e parole si declinò, nel 2011, prima in forma di spettacolo al Teatro Sanzio di Urbino e poi si tradusse in un video che fu presentato nello stesso anno, durante Il salone della parola, a Palazzo Ducale.
Che cosa ricorda di quel complesso lavoro di ricerca?
Questi lavori di ricerca sono come cacce al tesoro. Mi colpì moltissimo l’inesauribile ed inesausta scrittura di Bo. La sua cultura e la sua conoscenza letteraria senza confini, che si mescolavano davvero con il suo io più profondo. Ma, anche, mi colpirono i contributi dei tanti che scrissero di lui e quel senso di sodale amicizia, fatto anche di dispute e di rivalità, che accompagnava le vicende letterarie del tempo. Si poteva davvero parlare di menti che nel dialogo si scambiavano, anche ferocemente, delle opinioni discordi, ma ciò che impressionava era un pensiero plurale e continuo e quindi, necessariamente, ricchissimo.
Quali occasioni ancora sommerse della storia di Bo la colpirono più profondamente?
Mi colpirono soprattutto due parole che Bo sciolse letterariamente. Una parola è speranza, l’altra è coraggio.
La prima è protagonista di una raccolta di “moralità” dal titolo Scandalo della speranza, che Bo pubblicò nel 1957 per Vallecchi, e si condensa in una frase semplice ma terribile – come tutte le parole di pietra che lui sapeva gettare tante volte – che dice “fatalmente se uno vive deve sperare”. Ecco, in questo “fatalmente” c’è il senso di una necessaria accettazione di tempi non facili da cui occorre per forza rialzarsi ogni volta, tempi che anche Bo ha attraversato e che noi adesso, nella pandemia che improvvisamente ci ha invasi, abbiamo conosciuto e che dobbiamo superare tenendo sempre acceso il lume sul futuro.
L’altra parola è coraggio, ed è una parola relativa alla sua visione piena di audacia: il coraggio di stimare uomini politicamente e socialmente scomodi, come Don Primo Mazzolari e Testori, o il coraggio di immaginare Urbino come un mondo di cultura vivo e attivo, “già dimora dell’arte”, che l’arte di De Carlo ha contribuito a consolidare.
La parola scritta e letta sembra essere il punto d’origine di ogni suo movimento professionale. Una vocazione che è (anche) “Letteratura come vita”?
Assolutamente sì. Bo sosteneva che la letteratura è una condizione, non una professione, e credo, involontariamente, di aver interiorizzato in modo profondo questo assunto che ha dato poi un senso alla mia esistenza. Quello che tento di fare quando do voce a ciò che leggo è, anzitutto, mettermi in uno stato di ascolto umilissimo della parola scritta.
Tuttavia, non è possibile leggere ad alta voce agli altri senza riversare nella propria voce, che è corpo, tutta la propria esperienza intellettuale ma anche umana e fisica e sentimentale fatta di incontri, di dolore, di gioia, d’amore, di odio, di vittorie, di perdite. Per cui, quando leggo provo a condividere quello che ho compreso del testo in relazione anche a ciò che io stessa sono in quel determinato tempo, e in questo credo consista l’identità tra letteratura e vita.
Del resto, come dico sempre, la lettura ad alta voce o, perlomeno, il dar voce alla parola scritta è un tradimento perché io “trado” e nel momento in cui trasmetto, traduco, inevitabilmente tradisco. Eppure, il tradimento fa parte di un patto antico che io ho stretto quando ho capito che la letteratura, o meglio, che il rapporto tra la parola scritta e la parola detta potesse coincidere veramente dentro di me con una parola molto importante: felicità.
Bo scriveva: “Rifiutiamo una letteratura come illustrazione di consuetudine e di costumi comuni, aggiogati al tempo, quando sappiamo che è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza”. Ha conosciuto meglio se stessa attraversando questa “strada”?
Sicuramente non è stata l’unica strada, ma è stata forse la strada più importante attraverso la quale mi sono conosciuta meglio, perché – come accennavo prima – è stata fondata su un patto di verità, cioè di non menzogna rispetto al testo letterario.
Se manca il rispetto della parola scritta, se manca questa verità, viene meno il senso di ogni cosa e, quindi, il senso della propria vita. Tutto il mio rapporto con la lettura, e quindi con la letteratura, si colloca magnificamente nel perimetro del “professionismo volontario”.
La letteratura, che è gesto d’amore e di condivisione di bellezza, è il mio lavoro dell’anima.
Lucia Ferrati. Immagine: Amati-Bacciardi.