Lunedì 25 novembre 2024, l’Università di Urbino ha conferito il Sigillo di Ateneo al Professor Massimo Massetti, Direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari della Fondazione Policlinico Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Cardiochirurgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tra le molte ragioni del riconoscimento declamate dal Rettore, Giorgio Calcagnini, ha brillato la redazione del Manifesto Dignitas Curae, presentato a Montecitorio il 25 gennaio 2024 dalla Fondazione Dignitas Curae ETS di cui l’autorevole Cardiochirurgo è Presidente. Un documento rivoluzionario, sostenuto dall’esplicito consenso di Papa Francesco e del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che si propone di riformare il sistema sanitario nazionale portando al centro della relazione medico-paziente la dignità e le esigenze della persona.
Proprio al Manifesto per la medicina del futuro il Professor Massetti ha dedicato la lectio magistralis pronunciata subito dopo il conferimento del Sigillo, e dell’argomento ha parlato nell’intervista rilasciata ai nostri microfoni.

 

Professor Massetti, il Manifesto Dignitas Curae restituisce dignità al paziente, umanizza il sistema sanitario nazionale e sembra anche voler ripensare l’offerta che questo sistema propone. Come nasce l’idea di mettere nero su bianco questa dichiarazione di intenti?

Il contesto in cui viviamo è caratterizzato da profonde evoluzioni nel campo sociale, economico, geopolitico ma anche nella dimensione della cura, della tutela della salute. La medicina moderna ha fatto grandi progressi che hanno permesso di curare meglio le persone e che sono alla base dell’allungamento della vita, ma negli ultimi due o tre decenni, abbiamo assistito anche a una frammentazione della cura. Oggi, quando ci si cura, si rincorre questa, quella competenza o quelle risorse, e la persona malata passa in secondo piano rispetto all’aspetto più tecnologico.

 

In sostanza, stiamo vivendo un’epoca in cui la parte dell’approccio umano e la parte ipertecnologica della cura stanno divergendo. Da questo contesto, che noi viviamo negli ospedali, nasce l’esigenza di riumanizzare la cura, e il Manifesto è uno strumento di comunicazione e di aggregazione che ha come obiettivo quello di immaginare una medicina del futuro dove le medical technologies e le medical humanities tornino a essere convergenti. Ecco perché abbiamo scritto un documento che non è firmato perché condivisibile da chiunque ed è, in primis, uno strumento che ci deve unire tutti in questa visione della medicina del futuro.

L’applicazione concreta dei principi in elenco da quali impedimenti potrebbe essere attraversata nel breve periodo?

Effettivamente nell’evoluzione che c’è stata negli ultimi decenni abbiamo assistito a una iperspecializzazione della medicina. Io faccio sempre l’esempio degli anni ‘70 e ‘80 quando si entrava negli ospedali e si vedevano due grandi settori: la medicina e la chirurgia. Oggi, quando si entra in un grande ospedale si vede una lista molto numerosa di reparti specialistici. Per cui se immaginiamo una medicina del futuro con il paziente al centro e le risorse e le competenze intorno, ovviamente dobbiamo anche pensare di rifondare, riorganizzare gli ospedali.

 

Ecco perché quella che segna il Manifesto è una vera rivoluzione che è molto importante iniziare. Bisognerà effettivamente ripensare i modelli organizzativi con cui eroghiamo i servizi sanitari, ripensare gli ospedali stessi perché in questa visione futura non sarà più il paziente a spostarsi da un reparto all’altro, ma tutta la macchina organizzativa, attraverso percorsi in continuità, curerà con efficienza ed efficacia la persona malata.

Non di rado, nella nostra complessa contemporaneità efficienza e profitto prevalgono sull’etica. Pensa si possa invertire la rotta e fare in modo che la medicina recuperi il suo senso più autentico di missione, di vocazione?

Assolutamente sì, e proprio per evitare che questa medicina derivi sempre più verso forme caratterizzate da una scarsa eticità e uno scarso rispetto per la dignità della persona malata dobbiamo lavorare in primis sull’organizzazione, sul modo con cui curiamo. Oggi, al centro della cura ci sono le prestazioni che hanno un valore anche economico ed è questo l’aspetto, a volte, di deriva: si parla della sanità privata che per certi aspetti approfitta, o del malato che è considerato merce ecc.

 

Di contro, nella visione futura che il Manifesto spiega molto in dettaglio non sono le prestazioni ad essere al centro della cura ma la persona malata e la malattia che coinvolge molte dimensioni: anatomica e biologica e anche psicologica e sociale: pensiamo al ruolo della famiglia, fondamentale nel percorso di guarigione. Quindi, per evitare queste derive l’unico modo è cambiare il modo di curare, rinnovare gli ospedali, riorganizzare i sistemi di rimborso che sono quegli atti di valorizzazione della cura alla base della grande crisi del sistema sanitario nazionale.

Formare professionisti della sanità tecnicamente competenti è certamente possibile, ma si può insegnare l’empatia?

Sì, assolutamente! E devo dire che questo grande processo di riforma che, forse in maniera provocatoria, definiamo rivoluzione dev’essere accompagnata da un’evoluzione dell’insegnamento. Noi siamo già attivi in questo campo per favorire l’insegnamento di certi aspetti che sono parte integrante della cura: l’empatia, le capacità relazionali, l’aderenza terapeutica, la necessità di considerare la persona malata non spettatore della cura ma attore che deve entrare in un rapporto di fiducia con il curante.

 

Come si trasmette tutto questo? Abbandonando l’insegnamento della medicina iperspecialistica. Per insegnare una medicina del futuro, umana e performante sul piano tecnologico, dobbiamo insegnare anche competenze non tecniche: quelle che vengono definite life skills o soft skills, ossia tutte quelle caratteristiche che si insegnano e si apprendono e che pertengono a com’è una persona e non a quello che fa perché ha imparato il mestiere.

Quale messaggio sente di poter dedicare a una società che ha sempre meno fiducia nel sistema sanitario del Paese e ai tanti giovani aspiranti medici?

Il messaggio che vorrei lasciare ma anche lanciare è che bisogna considerare i momenti di difficoltà e di grande crisi, in tutti i campi, come opportunità. Oggi sappiamo perché affrontiamo questa crisi, ne conosciamo le cause, ne vediamo le conseguenze, e a tutti sembra quasi impossibile cambiare. Io dico, invece, che è possibile cambiare. Se saremo in tanti e metteremo in atto, con metodo, questa transizione della cura – dalla prestazione al paziente e al suo problema di salute – io credo che nel giro di qualche generazione potremo vivere una medicina a misura d’uomo, performante, di qualità ed efficiente. Stimolando interesse, motivazione e speranza tutti insieme riusciremo a realizzare questo grande progetto.

 

 

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