Il curriculum di Mirko Paiardini è infinito. Sintetizzando, si laurea in Scienze Biologiche a Urbino e dal Ph.D in Biochimica passa al Postdoc training presso la Emory University School of Medicine di Atlanta; diventa Senior Research Investigator nel Department of Pathology and Laboratory Medicine della University of Pennsylvania e poi Professore Associato alla Emory University School of Medicine di Atlanta, dove dirige il Laboratorio di Immunopatogenesi dell’infezione da Hiv.
Oggi, lo Studente Capolavoro di Uniurb, torna nelle aule della Carlo Bo come Visiting Professor e relatore d’eccezione del seminario Don’t go braking too fast: role of immunomodulatory, organizzato nell’ambito dei Dottorati di Ricerca in Scienze della Vita, Salute e Biotecnologie e Scienze di Base e Applicazioni del Dipartimento di Scienze Biomolecolari.
Professor Paiardini, quando e come nasce la sua passione per la ricerca?
Frequentavo il quarto anno di Ragioneria ed ero quasi convinto di iscrivermi al corso di laurea in Economia e commercio quando ho cominciato a cambiare idea. Ero molto attratto dalla biologia molecolare e dalla biochimica e, in generale, dalla ricerca, che mi ha sempre affascinato.
In effetti, più che studiare quello che altri avevano scoperto mi piaceva l’idea di scoprire cose nuove. Così, quando è arrivato il momento di individuare il corso di laurea universitario, ho scelto quello in Scienze Biologiche. Iniziato questo percorso, ho conosciuto il Professor Mauro Magnani, un professionista dalla mentalità molto aperta – mi piace definirlo l’americano di Urbino – che faceva il tipo di ricerca a cui io aspiravo, con una grande capacità di visione, guardando solo al merito degli allievi coinvolti, e da lì in poi le nostre strade hanno continuato ad incrociarsi.
Un articolo del Corriere della Sera scrive: Mirko Paiardini laureato all’Università di Urbino, ma “fuggito” dall’Italia per gli Stati Uniti.
No, non sono fuggito. Ho scelto di trasferirmi all’estero e sono felice della vita che vivo. È stato un percorso naturale, il migliore che potessi decidere di intraprendere. Durante il dottorato ho cominciato ad occuparmi di immunologia e infezione da Hiv e ho fatto ricerca per due anni proprio alla Emory University, dove lavoro adesso. In America ci sono sette National Primate Research Centers – quello di Emory è il più prestigioso – tutti centri di eccellenza in cui la ricerca impiega metodi e strumenti innovativi e fa sperimentazione anche animale avvalendosi, ad esempio, delle scimmie, ossia il miglior modello per studiare l’infezione di Hiv nell’uomo.
Mi è sembrato normale rimanere negli Stati Uniti, dove esiste ciò che serve per fare innovazione e dove si investe molto sulla ricerca. Detto questo, dico anche che ammiro chi resta e fa ricerca in Italia perché affronta livelli di complessità certamente maggiori.
Dopo molti anni, torna a Urbino come Visiting Professor e relatore del seminario organizzato nell’ambito dei Dottorati di Ricerca in Scienze della Vita, Salute e Biotecnologie e Scienze di Base e Applicazioni.
Sì. Oggi sento l’obbligo e il piacere di portare a Urbino il mio contributo scientifico attraverso i seminari e le lezioni organizzate nell’ambito dei dottorati, e, soprattutto, di dare alle nuove generazioni la possibilità, che ho avuto anch’io, di fare ricerca per un periodo in America, nel laboratorio che dirigo.
Proprio in questi giorni incontro i giovani dell’Ateneo interessati a questo tipo di esperienza. Negli anni scorsi, ho seguito due neolaureati dell’Università di Urbino che poi hanno continuato a lavorare negli Stati Uniti. Mi piace collaborare con persone che lavorano con ottimismo e impegno e fanno ricerca con passione!
Le sue ricerche più recenti puntano sulla combinazione di farmaci immunoterapici antitumorali e terapie per l’Hiv. Perché?
Semplificando, per combattere un virus o un tumore, le cellule del sistema immunitario devono attivarsi e produrre sostanze tossiche per il virus o per il tumore. Se questa attivazione continua in maniera ininterrotta può diventare tossica anche per lo stesso organismo del paziente. Per evitare questo rischio e per non generare malattie autoimmuni, intervengono specifici sistemi di molecole e recettori in grado di imporre alle cellule del sistema immunitario di fermarsi.
Il tumore e l’Hiv sfruttano proprio il vantaggio di questo sistema frenante: una molecola interagisce con un recettore e questo recettore, chiamato Pd1, frena il sistema immunitario del paziente fino a fermarlo, così da impedirgli di continuare a combattere.
Gli immunoterapici antitumorali agiscono eliminando la molecola che blocca il sistema immunitario affinché sia sempre attivo e possa continuare a combattere il tumore o l’infezione da Hiv.
Da qui il titolo del seminario che si è tenuto ieri a Urbino: Don’t go braking too fast: role of immunomodulatory, è esatto?
Sì. L’obiettivo del nostro studio è eliminare le molecole che bloccano il sistema immunitario nel caso di Hiv, per provare a sopprimere totalmente il virus.
Fino a pochi anni fa il virus dell’Hiv si replicava, uccideva le cellule del sistema immunitario e la gente moriva di AIDS: la sindrome da immunodeficienza acquisita. Adesso esistono terapie antiretrovirali che bloccano la replicazione del virus e consentono ai pazienti di vivere molto più a lungo.
Negli anni ‘80 e all’inizio degli anni ‘90, le aspettative di vita non superavano il limite dei 2 anni, adesso raggiungono anche i 40, 50 anni.
Non si tratta però di una cura definitiva perché se si interrompe la somministrazione del farmaco, il virus si ripresenta in tutti i pazienti, anche in quelli trattati da lungo tempo.
Questo succede perché gli antiretrovirali non riescono ad eliminare del tutto il virus, che è in grado di nascondersi anche a causa del recettore frenante Pd1. Ma dove si nasconde? Questa è la domanda alla quale gli studi recenti hanno cercato di rispondere, scoprendo che il virus resta silente nei “linfociti serbatoi”, detti anche “reservoir”. Ora, l’idea della nostra ricerca è quella di usare i farmaci immunoterapici per provocare uno shock in grado di attivare i linfociti serbatoi e indurli a produrre il virus mentre è in atto la terapia antiretrovirale, così da evitare di frenare il sistema immunitario, di evitare la propagazione dell’infezione e riuscire ad uccidere tutte le cellule interessate dal virus.
Quale fase di sperimentazione attraversa lo studio?
Per il momento la possibilità di produrre lo shock è stata, in clinica o negli studi preclinici, molto limitata. Ci stanno lavorando diversi gruppi di ricerca, e il nostro studio, rispetto agli altri pubblicati fino ad oggi, è tra quelli che hanno dimostrato il più alto livello di riattivazione del virus.
Esiste la prospettiva reale di una cura definitiva?
Fino a cinque anni fa avrei detto che siamo molto lontani dalla cura definitiva. Oggi mi sento di dire che per raggiungerla saranno necessari ancora molti anni ma gli studi recenti, che hanno portato nuove fondamentali informazioni e aperto nuove prospettive di speranza, hanno anche riacceso l’ottimismo e moltiplicato i finanziamenti. Quindi, continuiamo a fare ricerca guardando lontano con grande fiducia.
Immagine in evidenza: Steve Forrest, Workers Photos, IAS