La luce di Piero è il discorso pronunciato da Carlo Bo in occasione delle celebrazioni urbinati per il quarto centenario della morte di Piero della Francesca. L’intervento pubblicato nel 1992 su “L’Esagono”, n. 2, fu ristampato nel 1996 in Città e Corte nell’Italia di Piero della Francesca, Atti del convegno internazionale di studi, Urbino 4-7 ottobre 1992, a cura di Claudia Cieri.

A leggere e a interpretare il testo sono gli architetti Monica Mazzolani e Antonio Troisi, dello Studio MTA  Associati – Giancarlo De Carlo, entrambi partner del progetto internazionale Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito – ideato e coordinato da Tiziana Mattioli, docente di Letteratura italiana dell’Ateneo urbinate, e promosso nell’ambito del Prorettorato allo Sviluppo di Partenariati Strategici Nazionali e Internazionali.

 

La linea delle meditazioni di Bo su Urbino, per necessità indiscutibile, non può che incontrare e comprendere anche il contributo degli amici “eredi” di Giancarlo De Carlo. Benvenuti a bordo!

Monica Mazzolani ― Molte grazie. Il progetto internazionale Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito si fa interprete di una profonda consapevolezza: che Carlo Bo sia stato un personaggio unico e, come tale, abbia meritato un tributo coraggioso e originale.

 

Ho sempre pensato che Urbino dovesse essere considerata una “città dell’anima”, in parte costituita di forma e in parte di pura essenza, e come tale essere pronta a dare cittadinanza a quelle anime desiderose di comprenderla.

 

Per questo, quando la Professoressa Mattioli, su sollecitazione del Rettore Giorgio Calcagnini, ci ha offerto di aderire al programma – insieme all’Università di Sanantonio, Texas – con cui da anni collaboriamo, Antonio Troisi e io abbiamo accettato con grande entusiasmo.

La luce di Piero disegna le Architetture dello spirito?

Antonio Troisi ― Devo ammettere che la rilettura del testo di Carlo Bo mi ha profondamente colpito, è stato per me inevitabile trasferire il tema della luce all’architettura. Finito di leggere ho ripensato alla luce di Urbino, alle sue infinite sfumature e alle associazioni con il paesaggio.

 

Carlo Bo ci apre a una lettura critica straordinaria delle opere di Piero della Francesca: nelle sue rappresentazioni religiose, ad esempio, le scene, i personaggi e la luce sono assemblati in modo tale da riuscire a comunicarci il mistero della nostra esistenza. Nella luce di Piero non esiste una costante di riferimento: ad ambienti freddi dove la luce diffusa è quasi glaciale si alternano prospettive dove la luce penetra, per raggi puntuali, in un’atmosfera di pulviscolo.

 

In altri dipinti la luce è calda e artificiale e sembra essere il fuoco della rappresentazione, oppure si rivela accecante e dorata e diventa, alla maniera medievale, essa stessa scena dietro le figure. La lettura ci comunica la dicotomia tra rappresentazione e ambiente, ci comunica che la luce è parte della composizione e, forse, l’elemento che più delle figure contiene e comunica il mistero dell’opera.

Immagino che lo studio della luce sia stato determinante nei progetti realizzati da De Carlo – anche – a Urbino.

Antonio Troisi ― Mi viene spontaneo pensare quanto questa sensibilità e consapevolezza sia necessaria nel lavoro degli architetti, e credo che la luce e le modalità in cui viene utilizzata siano una costante anche nei progetti di Giancarlo De Carlo a Urbino, al punto che potrei affermare che la luce sia diventata uno degli elementi che rendono le sue architetture riconoscibili e memorabili.

 

Come non pensare ai lucernari posti sulle scale a chiocciola – segno così urbinate – dove la luce scende radente sulle superfici scabre di calcestruzzo; all’abbagliante paesaggio e alla linea dell’orizzonte riquadrato e incorniciato sulle prospettive spaziali; alle successioni di vetri che mescolano alla trasparenza e alla specularità frammenti riflessi di muratura; ai lunghi tagli sul soffitto dove la luce è catturata e incanalata nei percorsi più interni degli edifici.

La vostra partecipazione al progetto Urbinate per sempre non si conclude nel perimetro della lettura, è esatto?

Monica Mazzolani ― Sì, la nostra partecipazione si lega a due diverse sezioni del progetto: Le letture e Il museo nascosto. La proposta che abbiamo portato è stata quella di offrire un contributo che nasceva dal particolare rapporto tra Bo e la casa del Duca, il Palazzo Ducale. Con il linguaggio dell’architettura gli studenti, attraverso un meticoloso lavoro di rilievo condotto nelle parti più misteriose del palazzo, cercheranno di rendere visibile l’invisibile, di svelare “il museo nascosto” sotto il livello del cortile d’onore.

 

L’architettura, svela l’essenza dell’anima e i segreti dello spirito attraverso il mistero delle sue “divine” proporzioni. Urbino è una città che conserva inalterati molti altri segreti, che possono essere svelati soltanto a uno sguardo capace di penetrarli. In questo si può dire che sia davvero unica nella continuità, nella fortuna di aver tramandato nei secoli la capacità di leggere quell’alfabeto misterioso che l’ha tenuta in vita.

Urbino è stata per Giancarlo De Carlo, e per voi, un grande laboratorio di progettazione. Se vi chiedessi un fotogramma di quei giorni?

Antonio Troisi ― Riprendendo il tema della luce, ricordo che, lavorando con Giancarlo, dovevo disegnare un lucernario in una sala adibita ad auditorium, un lucernario circolare tagliato in due che avrebbe consentito l’ingresso della luce nella sala e nello spazio circostante.
Quel lucernario era pensato come una sorta di “macchina” per far variare costantemente la luce in relazione al muoversi del sole, alle condizioni metereologiche e alle stagioni. Generava quindi un’infinità di flussi luminosi filtrati dalle diverse bucature, con il risultato di cambiare costantemente la percezione dello spazio di chi vi sostava.

 

Fu l’Architetto a segnarmi sul disegno le dimensioni delle singole parti e risolvere il controllo delle inclinazioni, che per me – giovane architetto – era un enigma. Quella sicurezza dimostrava una padronanza nel controllo della luce che nasceva dallo studio e dall’esperienza. Quando vidi il lucernario realizzato, la misura della luce e il suo controllo mi lasciarono davvero stupito.

 

In un’altra occasione, in un altro progetto, disegnammo un lucernario lineare esposto sia a sud, sia a nord. Da sud penetrava una lama sottile di raggi solari che si proiettava su un muro e veniva riflessa nella grande sala. Su quel muro si leggeva lo scorrere del tempo; il movimento e la dimensione della lama di raggi solari era parte caratterizzante dell’architettura. Da nord, invece, penetrava in un’altra sala inducendo una luminosità diffusa quasi costante. In ogni progetto di Urbino ci sono queste “macchine”, questi espedienti, che fanno sì che la luce ne sia un elemento importante.

È possibile rintracciare, tra Bo e De Carlo, un registro di sollecitazioni e ragioni comuni? Chi ha influenzato chi?

Antonio Troisi ― Quale sia stata l’influenza di Carlo Bo nell’architettura di De Carlo o le influenze reciproche è difficile dirlo, ma certamente l’associazione tra luce e architettura li accomunava profondamente, e il testo di Bo ce lo racconta. Li accomunava la comprensione che la luce è generatrice di emozioni, costruisce gli ambienti e le scene e talvolta diventa essa stessa poesia e mistero: questo succede nel testo, nell’opera pittorica e nell’architettura.
Ma il coinvolgimento della luce con l’ambiente e con il paesaggio è inevitabile; per questo la specificità dei luoghi ha un peso straordinario e la misura, la qualità e la varietà della luce di cui parliamo non può che essere urbinate.

Per Carlo Bo Urbino è la “casa che l’arte di De Carlo ha consolidato per i secoli”, una casa che abbiamo l’obbligo di conservare.

Monica Mazzolani ― Urbino è unica e questa unicità comporta grandi responsabilità, prima tra tutte quella di dare continuità e conservazione alla memoria del passato. Quando parlo di memoria del passato non mi riferisco soltanto ai suoi monumenti, benché la loro conservazione meriti la più grande attenzione, ma anche la conservazione dei valori intrinseci contenuti nelle architetture novecentesche che a Urbino continuano ad attrarre intellettuali e studenti di architettura provenienti da tutto il mondo.

 

Bisogna chiedersi perché. Cosa rappresentano per gli architetti quelle superfici scabre, che cosa cela quel linguaggio essenziale e quella capacità di sperimentare soluzioni ardite, inesplorate fino agli anni Sessanta in Italia?
Ma soprattutto, a chi sono dedicati gli ampi spazi dei collegi e per chi sono stati concepiti gli auditori, gli spazi di lettura, i giardini pensili e tutti quei luoghi in cui gli studenti si sentono accolti e trovano risposta alle proprie necessità?

 

De Carlo, intimamente amico di Carlo Bo, ha avuto un ruolo nell’interpretazione del “futuro” dell’Università e nella sua definizione è stato di lui complice e artefice. Entrambi hanno immaginato gli studenti come una grande risorsa del Paese, come la classe dirigente del futuro, come pionieri di un nuovo mondo e per loro hanno ideato i collegi.

I collegi universitari: un capolavoro di architettura moderna di cui continuate a prendervi cura, anche grazie al contributo della Getty Foundation attribuito al Piano di Conservazione del complesso edilizio.

Monica Mazzolani ― Ai collegi gli studenti avrebbero trovato un luogo in cui erano rappresentati quei valori di comunità dello spirito di cui c’era tanto bisogno, che era necessario custodire e far crescere, negli anni che seguivano il secondo dopoguerra, per corrispondere alle richieste formulate da una moderna democrazia.

 

Oggi questa risorsa deve essere vista dalla città come un patrimonio di cui rivendicare l’originalità e il grandissimo valore. Il finanziamento erogato nel 2013 e nel 2018 dalla Getty Foundation di LA per la conservazione dei collegi dimostra il valore, universalmente riconosciuto, del complesso architettonico, e la Royal Golden Medal, consegnata nel 1993 a De Carlo per la sua capacità di “creare comunità”, pensando all’esperienza urbinate, lo testimonia.

 

Testimoniare il grande valore della continuità architettonica che ha distinto la città per più di cinque secoli è un grande privilegio per la città, ma anche una grande responsabilità. Per questo la città di Urbino, che per sua grande fortuna ha avuto più di un Duca, è chiamata a diventare parte attiva nel promuovere la cultura della conservazione, estesa agli edifici del secondo Novecento.

Di cosa ha bisogno oggi Urbino?

Monica Mazzolani ― Gran parte del lavoro è stato fatto, quello che servirebbe oggi è che anche i cittadini, e tutti coloro che fanno parte di questa “comunità elettiva”, prendessero come un impegno personale la promozione di questi valori.
La conservazione va intesa come un processo proattivo che richiede l’impegno di tutti coloro che direttamente o indirettamente fruiscono di un bene di valore riconosciuto e costituisce, a suo modo, una rivoluzione. Urbino, che ha insegnato al mondo che gli edifici storici per mantenere inalterato il loro valore devono poter continuare a vivere, secondo me, se ne deve fare testimone e portavoce.

 

 

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