Venerdì 25 ottobre, l’attore e regista Edoardo Leo ha incontrato gli studenti e le studentesse dell’Università di Urbino. L’iniziativa è stata promossa da Cineventi, con il patrocinio della Conferenza Nazionale degli Organismi di Parità delle Università italiane, in collaborazione con la Fondazione Marche Cultura e Marche Film Commission.
In dialogo con Giovanni Boccia Artieri, Prorettore alla Didattica e alla Comunicazione Interna ed Esterna, e con Stefania Antonioni, Professoressa Associata di Cinema, fotografia, radio, televisione e media digitali, Leo ha affrontato i temi cardine del suo ultimo film Non sono quello che sono: la trasposizione, o meglio la “traduzione”, cinematografica dell’Otello di Shakespeare. Del resto, i classici sono contemporanei perché raccontano l’essere umano nelle sue miserie più profonde, e la storia approdata da poco nelle sale è una presa di posizione netta contro la violenza di genere, la gelosia, il maschilismo, il razzismo, insomma contro il male del mondo che dobbiamo guardare in faccia ogni giorno e combattere. Tutte e tutti.
Prima di raggiungere l’Aula Magna dell’Area Scientifico-Didattica Paolo Volponi, Edoardo Leo ha consegnato ai microfoni di Uniamo una breve intervista.
Edoardo, hai definito Non sono quello che sono un progetto conservato a lungo in un cassetto. Più che una necessità artistica sembra essere un atto di coraggio. Perché?
In realtà non c’è stato tanto nel cassetto, nel senso che stava sempre sulla scrivania, e anche se non lo proponevo sentivo la necessità di lavorarci continuamente. Anche mentre facevo altro. Doveva maturare la forza, la voglia di portarlo ai produttori, di fare il viaggio che sto facendo qua dentro. Perché quando si toccano certi temi, anche attraverso un grande classico, si toccano temi complicati, scivolosi, drammatici, difficili. Sono contento di non averlo fatto allora il film e sono molto felice di portarlo in giro adesso, con una consapevolezza più da uomo che da ragazzo.
Il progetto era sulla scrivania e da lì hai tradotto Shakespeare in romanesco e in napoletano. In che misura hai “tradito” o ridotto al silenzio l’originale, non solo in una prospettiva stilistica ma anche semantica?
La traduzione è una traduzione molto fedele. Non ho adattato l’Otello, non l’ho riscritto, non ho aggiunto niente. È la traduzione integrale fatta dall’inglese al dialetto, quello sì. La sfida era togliere l’aura romantica di Otello come vittima del troppo amore. Volevo farlo senza toccare il testo. Ho fatto dei tagli, questo sì, però la sfida più grande era proprio quella: per troppo tempo in quel testo, figlio di un altro tipo di esperienza storica, c’era una specie di compassione nei confronti di Otello che invece in quest’epoca dev’essere assolutamente solo carnefice. È stata quasi un’operazione di sottrazione di aura romantica, non è stato facile, ma le proiezioni che abbiamo fatto stanno riconoscendo che è riuscito come intento.
Che impatto ha avuto su di te questo lavoro e quale influenza immagini possa avere sui giovani che vedranno il film al cinema?
Su di me grande. Non sempre un film ti fa fare ragionamenti su te stesso. Io sono stato costretto a fare ragionamenti su quanto fossi inconsapevolmente maschilista. Non possiamo sempre pensare che il problema è degli altri. Mi sono fatto domande su quanto patriarcato resistesse in me, anche se penso di essere immune da certe logiche comportamentali.
Sui ragazzi posso solo dirti l’esperienza che ho fatto questa settimana durante gli incontri con gli Atenei. I ragazzi sono interessati, è un tema che li riguarda da vicino. Sono ragazzi di diciotto, diciannove, vent’anni che si approcciano alle prime relazioni, ai primi problemi e, in un certo senso, si approcciano ai primi incontri con l’altro sesso – quasi sempre del femminile verso il maschile – rendendosi conto che ci sono certe dinamiche che vanno scardinate e che siamo in un ritardo enorme.