Il ciclo di incontri del progetto Bo/De Carlo. Pensare una città. Un ateneo nel segno del contemporaneo – curato dal Rettore Giorgio Calcagnini e dalla Professoressa Tiziana Mattioli – avanza nel suo percorso coerente e necessario. Lo scorso 29 aprile, l’Aula Magna del Rettorato ha, infatti, ospitato la conferenza Bo/De Carlo. L’eredità molteplice, tenuta dal Professor Paolo Bonvini, docente di Composizione architettonica e urbana dell’Università Politecnica delle Marche. Abbiamo conservato traccia di questa preziosa testimonianza in due forme diverse. Attraverso un video che restituisce integralmente la lectio sul canale Youtube di Uniurb, e attraverso l’intervista che segue. Una conversazione, che lascia emergere il racconto, meditato ed esatto, di un apprendistato silenzioso vissuto accanto a Giancarlo De Carlo, nel suo studio milanese, e insieme, del suo lascito più vero: l’idea che l’architettura non abbia ragione d’essere senza ascolto, senza relazione, senza vita.

Il Professor Paolo Bonvini
Professor Bonvini, ha conosciuto e lavorato con Giancarlo De Carlo. Come avvenne il vostro primo incontro?
Ho conosciuto Giancarlo De Carlo nei primi anni Ottanta, quando, studente allo IUAV, seguivo il suo corso di Urbanistica. Dopo la laurea la mia curiosità e il mio desiderio di scoperta mi hanno portato in Olanda, alla TU Delft per una borsa di studio, e poi in uno studio professionale. Un anno dopo, tornato in Italia, ho cercato di crearmi nuove occasioni di apprendimento e, mettendo in fila le idee, ho spedito tre curricula a tre architetti che ritenevo interessanti per me. Renzo Piano non mi ha mai risposto. Mario Botta ha cortesemente replicato spiegando che in quel momento non c’era spazio nel suo studio. De Carlo mi scrisse una breve lettera, cortese, come era lui, che conteneva una sorta di invito: “se passa da Milano venga a trovarmi”. Ho trascorso il mese di agosto in fibrillazione, e il primo settembre mi sono presentato in studio. Lì, dopo quindici giorni, ho cominciato a lavorare. Sembra una favola, lo so. Oggi probabilmente non potrebbe succedere, ma nel 1989 ebbi questo grande privilegio.
Che ricordo ha delle prime esperienze condivise?
Le esperienze condivise con De Carlo erano i progetti. Sono stato un umile scrivano, non il Bartleby di Melville – nessun “preferirei di no” – ma comunque uno che ascolta ed esegue cercando di farlo nella maniera più fedele. Quando lavori accanto a una figura così “alta” non puoi che diventare uno “strumento di servizio”. Collabori e offri, da neolaureato, capacità modeste e competenze ancora in formazione. E lo fai con convinzione, sapendo che il confronto è decisamente impari. Del resto, lui aveva quasi settant’anni quando ho iniziato la collaborazione, per cui la sua carriera si avviava verso la fase discendente. Io invece mi ero appena laureato. Eravamo in due orbite distanti che per un certo tempo si sono sfiorate, e di questo gli sono grato. Grato di avermi accolto. Perché la pratica dell’accoglienza, su cui spesso oggi si disquisisce in maniera anche demagogica e strumentale, io l’ho conosciuta con De Carlo nella sua forma più concreta e meno dichiarata.
Mi racconta l’atmosfera dello studio milanese?
Lo studio era un’officina di idee in cui il lavoro non era mai fatica, ma un esercizio di senso e di forma. Un ambiente in cui l’intensità non escludeva il sorriso. Ricordo che qualcuno dei collaboratori scherzando chiedeva: «ma come sei finito qui dalle Marche?», e continuava benevolmente: «forse sei la radice marchigiana dello studio». Una battuta non priva di senso perché sappiamo quanto fosse profondo il legame di De Carlo con Urbino e con le Marche.
Come si stava con Giancarlo De Carlo nei silenzi, nelle tensioni, nella concretezza del lavoro.
Si stava con rigore. Un rigore implacabile, esercitato prima di tutto su sé stesso e, proprio per questo, preteso anche dagli altri. Era una cifra morale dell’uomo prima ancora che professionale. Ma insieme alla fermezza – so che potrebbe sembrare un paradosso – si avvertiva l’empatia, la sua vicinanza umana, discreta, nascosta. Non saprei certificarla, mi rendo conto che in lui non fosse immediatamente percepibile questa caratteristica, ma io l’ho avvertita.
De Carlo praticava, secondo lei, una forma di sostenibilità prima ancora che questa parola diventasse d’uso comune?
Difficile da dire. Dipende dal significato che attribuiamo al termine sostenibilità, che nel tempo ha assunto significati molteplici. Potrei rispondere che l’attenzione di De Carlo fosse anzitutto rivolta a una sostenibilità di tipo sociale. Ricordo, ad esempio, che preconizzava, con fermezza visionaria, l’estinzione delle automobili entro l’anno 2000. Non per un capriccio futurista, ma perché riteneva che l’organizzazione dello spazio urbano avrebbe dovuto creare condizioni di vivibilità tali da rendere obsoleto l’uso del mezzo privato. La profezia non si è ancora realizzata, anche se in alcune grandi città europee ci sono tendenze in atto che vanno in tale direzione, ma il senso di quella visione resta intatto.
Negli ultimi anni della sua vita, inoltre, si avvertiva nel suo pensiero un certo interesse sbilanciato verso la presenza dell’albero, come metafora, come simbolo di una vita organica e interconnessa. Una prospettiva anche questa che ha anticipato ciò che oggi la scienza certifica, riconoscendo alla vegetazione una forma di intelligenza propria: alternativa, reticolare, complessa, globale, profondamente diversa dalla nostra e per questo ignorata. Detto ciò, il concetto di sostenibilità – per lui – avrebbe avuto oggi una radice sostanzialmente sociale, a mio avviso.
Parliamo di social housing. In che modo l’architettura può essere oggi strumento di inclusione, di responsabilità sociale, e non segno di disuguaglianza?
È una bella domanda che lascia spazio a una risposta non semplice. Posso dire che ancora oggi, quando insegno Progettazione architettonica, cerco di trasmettere agli studenti un principio radicato nella natura più profonda di Giancarlo De Carlo. Mi riferisco al rifiuto della specializzazione, intesa come frammentazione del sapere in settori isolati, compartimentati, non in dialogo tra loro. Con De Carlo l’architettura diventava una disciplina molteplice, viva, capace di ibridare conoscenze e funzioni. L’edificio non era più pensato come semplice contenitore abitativo – in cui si vive, si dorme e dal quale si esce per andare altrove – ma come organismo complesso in grado di soddisfare esigenze anche di tipo sociale, relazionale, comunitario. Un’idea che, purtroppo, abbiamo largamente disatteso.
Nel secondo dopoguerra, ad esempio, nei quartieri di edilizia popolare si costruirono i volumi, le abitazioni – questo sì – ma mancò del tutto la seconda fase: quella che avrebbe dovuto completarne il disegno con i servizi, gli spazi di aggregazione, i luoghi della socialità, che non furono mai realizzati. E così oggi stigmatizziamo, ad esempio, il quartiere Zen di Palermo o il Corviale di Roma. Una scusante parziale, forse, si potrebbe rintracciare nelle urgenze di allora. Resta comunque il fatto che quelle architetture erano – e continuano ad essere alienanti – viziate dalla mancanza di una visione capace di tenere insieme la necessità dell’abitare e la qualità del vivere.
L’esperienza di lavoro con De Carlo che tipo di impronta ha lasciato sul suo modo di progettare?
Col tempo ho continuato a constatare come alcuni aspetti per cui De Carlo è ricordato finiscano, non di rado, per mettere in secondo piano ciò che nella sua opera riguarda i fondamentali dell’architettura. Vale a dire la luce, lo spazio, le proporzioni, le dimensioni, l’ambiente, il contesto: tutte costanti “lunghe” che perdurano attraversando le epoche. Restano e ti formano, ti guidano, nel modo in cui fai architettura, se davvero scegli di farla.
Io mi sono occupato di architettura con il mio studio professionale per un decennio e, attraverso concorsi vinti, ho avuto la fortuna di realizzare una serie di architetture insieme ad altri colleghi. In tutti questi lavori, la ricerca costante sulla qualità dello spazio, sulla relazione dello spazio con la luce, sulle proporzioni, sulla concatenazione degli ambienti condotta da De Carlo ricorre.
Eppure, se poteva essere facile, almeno un tempo, definirsi “rossiani”, ad esempio – replicando un’immagine e ammiccando ad Aldo Rossi – non c’era e non c’è nessuna plausibilità nel definirsi “decarliani” perché De Carlo non inventa uno stile, anzi, lo rifugge. Ogni sua opera è diversa dalla precedente in quanto nasce da un luogo e da un programma preciso, reale. La sua è un’architettura che si lascia contaminare dalla vita e cerca di mantenersi viva. Ecco perché non fu, né avrebbe mai potuto essere un “archistar”. Fu invece un architetto nel senso più pieno, critico e civile del termine.