Analisi di genere nei ruoli docenti dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo è il report presentato lo scorso 8 marzo da Uniurb che fotografa un’interessante mutazione in corso.
Indagando l’intervallo temporale 2000-2020 in relazione alla carriera accademica femminile, il documento segnala infatti un trend in moderata crescita che dà ragione di ipotizzare, nei prossimi anni, il conseguimento di una parità di genere in tutti gli ordini di ruolo.
Ne parliamo col Professor Marco Rocchi, Delegato del Rettore alle Analisi Statistiche di Ateneo.
Professor Rocchi, quali dati ha evidenziato l’analisi di genere nel personale docente del nostro Ateneo?
Il report ha evidenziato due tipi di dati. Uno in relazione alla situazione attuale che registra un gender gap ancora piuttosto elevato tra i docenti ordinari. L’altro in relazione a un trend che mostra come nell’ultimo ventennio questo divario di genere nel personale docente si stia, in maniera progressiva, sensibilmente riducendo.
Considerato l’incremento della presenza femminile nelle categorie “ricercatori universitari” e “professori associati”, possiamo ipotizzare – e auspicare – nel prossimo futuro un progressivo superamento del gap di genere anche nella categoria dei “professori ordinari”?
Certamente. Di fatto oggi, nel nostro Ateneo, il gender gap riguarda in prevalenza la prima fascia, quella dei professori ordinari. Nella seconda fascia, dei professori associati, il divario si è sostanzialmente annullato e tra i ricercatori, in particolare gli RTDb – i ricercatori a tempo indeterminato di tipo B che, acquisita l’abilitazione e un giudizio di merito, dopo tre anni accedono al ruolo di associati – le donne sono in grandissimo vantaggio.
Questa percentuale importante ci consente senz’altro di ipotizzare che nel giro di pochissimi anni non solo il gender gap tra i professori associati sarà colmato, ma anche che, con ogni probabilità, si verificherà uno sbilanciamento a favore delle donne.
Dopodiché, nel successivo passaggio di carriera, ci aspettiamo che venga completamente colmato anche l’ultimo importante divario di genere all’interno della prima fascia.
È chiaro che l’attuale situazione tra i professori ordinari non è dovuta a un reclutamento recente dell’Ateneo di Urbino, ma riguarda azioni di reclutamento del passato che hanno portato meno donne nelle fasce più basse e, di conseguenza, negli anni successivi, nelle fasce più alte.
Va detto che gli indicatori segnalano per Uniurb numeri in linea con i dati MIUR relativi all’intero sistema universitario nazionale. E non solo, perché secondo un’indagine dell’UNESCO Institute for Statistics (UIS), nel mondo, le donne ricercatrici rappresentano una quota inferiore al 30%.
L’Università di Urbino non solo è in linea con la situazione italiana, ma segnala un gender gap, che pure esiste, di portata leggermente inferiore rispetto alla media degli Atenei del Paese.
A livello mondiale i dati estratti da altre agenzie evidenziano una quota di donne occupate nella ricerca compresa tra il 30% e il 40% del totale, ma anche in questo caso non dobbiamo ignorare che le statistiche europee registrano per l’Italia, in materia di divario di genere, una condizione migliore rispetto a quella degli altri Paesi.
Quali sono i fattori che impediscono alle donne l’avanzamento di carriera in ambito accademico?
Se parliamo di carriere accademiche dobbiamo necessariamente evidenziare un problema di tipo culturale che si lega a un pregiudizio di genere molto marcato. Esiste infatti l’idea per la quale fare ricerca sia un’esperienza così totalizzante da escludere la donna che, per sua natura, non è vista solo come professoressa universitaria ma anche come moglie e, soprattutto, madre. Ma è un divario che si va riducendo: nella scuola elementare ottocentesca c’era, ad esempio, una netta prevalenza di maestri maschi.
Io stesso, che ho fatto le scuole elementari tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, ho avuto un maestro.
Oggi i maestri elementari maschi sono una rarità e la presenza delle donne va lentamente risalendo fino all’ambito accademico, eppure i pregiudizi culturali risultano difficili da smantellare.
Lo Stato dovrebbe mettere in piedi politiche di sostegno che non siano quelle delle quote rosa o di canali privilegiati per la donna rispetto all’uomo, ma piuttosto creare una parità di opportunità che dia alla donna che partorisce e che allatta la possibilità, ad esempio, di usufruire di nursery o nidi dentro i luoghi di lavoro.
È costoso? Sì, ma forse è l’unico modo – oltre, naturalmente, al mutamento del contesto culturale in famiglia e a scuola – per colmare il divario di genere.
Esiste anche un’asimmetria di genere più specificamente formativa, legata a una certa resistenza delle ragazze nei confronti delle discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica), è esatto?
Sì. I dati del 2018 segnalavano, nel mondo, un fenomeno sconcertante: 62 milioni di bambine senza alcuna possibilità di accesso all’istruzione. Questo significa che in alcuni Paesi è normale mandare a scuola il figlio maschio ma non è consuetudine iscrivere la figlia femmina.
Esiste un pregiudizio culturale maschile fortissimo, evidente anche in relazione a personaggi straordinari. Cito Kant: “ogni conoscenza astratta, ogni conoscenza che sia essenziale, si avverte deve essere lasciata alla mente solida e laboriosa dell’uomo. Per questa ragione le donne non sapranno mai la geometria”. Questo è Kant, uno dei padri del pensiero moderno!
A conti fatti, siamo vittime di due stereotipi: il primo l’ho già descritto ed è quello che considera il lavoro accademico, e tanto più quello scientifico, una missione totalizzante; l’altro è quello per il quale, addirittura, le donne sono fisiologicamente inadatte alla scienza.
E sono, chiaramente, pregiudizi che si vanno alimentando e spingono un genitore ad orientare il proprio figlio maschio verso discipline scientifiche e la figlia femmina verso discipline umanistiche.
Tra l’altro, l’operazione di indirizzare le bambine a un certo tipo di impostazione culturale innesca il meccanismo della “profezia che si autoavvera”, e ha come esito conseguente che le donne stesse si autoescludano, nella convinzione che i maschi siano più adatti al pensiero astratto, al pensiero razionale, e loro al pensiero creativo.
Eppure, non sono poche le donne scienziate che hanno cambiato e continuano a cambiare il mondo!
Io cito sempre Maria Skłodowska Curie che ha vinto due premi Nobel, per la chimica e per la fisica, ma che ha avuto accesso all’indagine scientifica solo perché moglie di Pierre Curie che le ha aperto, letteralmente, le porte di un laboratorio di ricerca. Dunque, una donna dalle straordinarie capacità che, però, non avrebbe, forse, potuto mostrare senza un marito scienziato.
Ma cito anche Annie Jump Cannon, astronoma americana nata nella seconda metà dell’Ottocento, alla quale si deve un catalogo in nove volumi che comprende quasi 250.000 spettri stellari, un’opera fondamentale nello sviluppo dell’attuale classificazione dei corpi celesti. Ed è interessante notare come lei riesca nell’impresa, paradossalmente, perché esclusa da lavori di costruzione teorica: ottiene un lavoro certosino di catalogazione e di pazienza, considerato poco gratificante per un uomo e adatto invece ad una donna.
E ancora, Barbara McClintock, Premio Nobel per la medicina, avrebbe voluto studiare genetica, che era però considerata roba da uomini: il risultato è che ha virato verso la botanica vegetale – ambito disciplinare più adatto alle donne secondo il solito stereotipo – e ha vinto il Premio Nobel proprio per le sue ricerche in genetica.
Pensiamo ancora a Gertrude Belle Elion che ha fatto una brillante carriera ed è arrivata fino al Nobel per la fisiologia e la medicina. È riuscita ad entrare in un laboratorio durante la seconda guerra mondiale, sfruttando il fatto che i laureati maschi fossero in guerra. Diversamente non avrebbe avuto questa opportunità.
A Lise Meitner, che ha dato la spiegazione teorica della prima fissione nucleare, è stato negato il Premio Nobel per la fisica in virtù del suo contributo solo teorico e non sperimentale.
Chien Shiung Wu, fisica cinese naturalizzata americana, ha lavorato nel gruppo di ricerca che studiava la violazione della legge di parità in fisica delle particelle portando a termine esperimenti che hanno dimostrato ciò che dal punto di vista teorico i suoi colleghi avevano previsto. Il risultato? Il premio Nobel per la fisica è stato attribuito solo ai due colleghi maschi in virtù del suo contributo solo sperimentale e non teorico, cioè per il motivo opposto a quello per cui era stato negato il Nobel a Lise Meitner.
È possibile immaginare una nuova narrazione dei saperi tecnico-scientifici e nuove politiche di promozione degli stessi affinché “sempre più giovani donne – e cito il Presidente del Consiglio – abbiano eguale accesso alla formazione di queste competenze chiave”?
C’è una possibilità che credo debba partire dalla scuola e dalla famiglia per smontare l’idea del figlio maschio “scienziato” e della figlia femmina che si occupa di lettere e arti. E non mi stupisce che questa frase sia stata pronunciata da Draghi perché si tratta di una questione che riguarda anche la sfera socio-economica del Paese.
Di fatto, in Italia abbiamo più laureati donne che laureati uomini, anche in ambito scientifico. Abbiamo più dottori di ricerca donne che dottori di ricerca uomini. Nella fase successiva della carriera accademica i ruoli si invertono, provocando un danno considerevole dal punto di vista economico.
Voglio dire, laureare una donna costa esattamente quanto laureare un uomo. Formare un dottore di ricerca donna costa esattamente quanto formare un dottore di ricerca uomo. E lasciar morire la carriera di queste persone ai livelli bassi vuol dire investire male i nostri soldi!
Quindi mettere le donne nelle condizioni di fare la stessa carriera degli uomini, se ne hanno le capacità, significa garantire al nostro Paese un notevole vantaggio economico.
Per quel che riguarda la promozione, credo che si debba intervenire con una politica educativa – multicanale che passi per la televisione, ma anche per i social media – nell’ambito della quale il ruolo più importante sia da affidare alle scienziate. Penso a Fabiola Gianotti, direttrice generale del CERN di Ginevra, o alla nostra eccellenza urbinate Marica Branchesi, professoressa associata di fisica astroparticellare al Gran Sasso Science Institute, o ancora alla biologa e divulgatrice Barbara Gallavotti come esempi di figure femminili di grande efficacia, capaci di fare e di raccontare la scienza come mai è stato fatto.
Nella mia esperienza, vorrei citare la Professoressa Fortunata Solimano, ormai in pensione, che è stata la mia relatrice di tesi e poi la mia direttrice di istituto. Una matematica in grado di spiegare le cose più difficili con una pazienza materna. Essere donna e, insieme, essere scienziata è possibile.
RTD = Ricercatori a Tempo Determinato di tipo a e di tipo b
PA = Professori Associati Non Confermati e Confermati
PO = Professori Straordinari e Ordinari
Credits: Prof. Marco Rocchi, Dr. Stefano Amatori.
Fonte dati: MUR.