Tra il XIV e il XV secolo, tre tsunami prodotti da frane del vulcano Stromboli raggiunsero rovinosamente le coste della Campania. La scoperta si deve a uno studio pubblicato di recente sulla rivista Scientific Reports, del Gruppo Nature, che evidenzia il rischio tutt’ora in atto di maremoti distruttivi nell’area del Tirreno Meridionale.
La ricerca interdisciplinare, Geoarchaeological Evidence of Middle-Age Tsunamis at Stromboli and Consequences for the Tsunami Hazard in the Southern Tyrrhenian Sea, è stata coordinata dall’Università di Pisa e condotta in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, le Università di Urbino e di Modena-Reggio Emilia, l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del Consiglio Nazionale delle Ricerche, la City University of New York, l’American Numismatic Society e l’Associazione Preistoria Attuale.
Ne parliamo con il Professor Alberto Renzulli, del Dipartimento di Scienze Pure e Applicate, tra i dieci ricercatori autori dello studio.
Professor Renzulli, com’è nata la collaborazione tra i diversi gruppi di ricerca?
Mi interesso del vulcano Stromboli da più di trent’anni. Ho iniziato da studente sotto la guida del Professor Giovanni Nappi e ho continuato periodicamente a indagare, sul campo e in laboratorio, l’origine dei magmi, le eruzioni e la sua evoluzione. Da allora non ho mai smesso di incuriosirmi scientificamente e di avvicinarmi con grande rispetto a Iddu – come chiamano il vulcano gli strombolani – con una sorta di timore reverenziale per questa “forza della natura”.
La ricerca interdisciplinare è stata avviata una decina di anni fa, circa, quando ho iniziato a collaborare con un gruppo di archeologi dell’Università di Modena e Reggio Emilia che avevano intrapreso degli scavi a partire da reperti che risalivano all’età del bronzo. Man mano che il lavoro avanzava mi rendevo conto della necessità di aprire lo studio ad altre competenze e di coinvolgere esperti di aree disciplinari diverse, e così la partecipazione è stata estesa prima ai colleghi dell’Università di Pisa e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e, progressivamente, agli altri gruppi di ricerca. Quindi, posso dirmi molto contento di essere stato, dieci anni fa, promotore di questo team.
Per quale via è stato possibile rintracciare nelle frane del vulcano Stromboli l’origine dei tre maremoti avvenuti tra il 1343 e il 1456?
Attraverso un grande lavoro di squadra. Noi vulcanologi e petrologi, scavando una serie di trincee artificiali e studiando quella che chiamiamo stratigrafia dei depositi, ci siamo accorti che a poca distanza dalla zona dell’attuale spiaggia di Stromboli si rinvenivano depositi che non erano prodotti vulcanici comunemente eruttati, ma sabbie e ciottoli sollevati e trasportati da un’onda, per qualche centinaia di metri, dall’area della vecchia spiaggia verso l’interno dell’isola.
Abbiamo, inoltre, registrato evidenze che segnalavano a Stromboli, tra il 1343 e il 1456, episodi eruttivi importanti e, soprattutto, frane della cosiddetta Sciara del Fuoco: il versante nord-occidentale dell’isola, molto instabile e molto acclive e, pertanto, periodicamente soggetto a franamenti di varia portata. Le frane, infatti, se sono piccole producono quantità contenute di materiali senza effetti significativi, se, invece, coinvolgono volumi di rocce di decine di milioni di metri cubi che si riversano in mare possono generare tsunami. I maremoti, infatti, sono principalmente causati dai terremoti con epicentro a mare ma non solo; anche un’eruzione vulcanica può innescare la frana in mare e il conseguente spostamento di un onda di maremoto, come è successo in Indonesia, alla fine del 2018, nel caso del vulcano Anak Krakatoa.
Quindi, incrociando i nostri dati stratigrafici con i rinvenimenti degli archeologi, ossia, i resti di una chiesetta distrutta intorno al 1350 in concomitanza con gli episodi eruttivi dei quali ho parlato, le datazioni al radiocarbonio di resti vegetali nelle trincee e di quelli ossei negli scavi, di tutti i reperti e le testimonianze riportate nei documenti storici, non ultima la lettera di Francesco Petrarca a Giovanni Colonna in cui descrive la devastazione del porto di Napoli del 1343 causata da una “tempesta marina”, siamo riusciti ad attribuire questa serie di tre maremoti al periodo compreso tra il 1343 e il 1456. E in questo intervallo di tempo ad individuare lo tsunami più importante e distruttivo, databile intorno al 1350, che ha colpito l’isola stessa di Stromboli – dal quale si era generato – e le coste della Campania propagandosi per oltre 200 km nel Mar Tirreno Meridionale.
Lo “strepito spaventevole di mare” raccontato da Petrarca fu generato, quindi, da una frana del vulcano Stromboli. Quali sono gli esiti ulteriori di questo importante studio interdisciplinare?
Dalla descrizione si è potuto ipotizzare che Petrarca fosse stato testimone oculare dell’onda che si è abbattuta sul porto di Napoli. In realtà anche la costa di Amalfi fu colpita, e danni ingenti e perdite di vite umane si ebbero in entrambi i luoghi.
Ciò che nessuno aveva ancora spiegato era l’origine dell’onda, l’evento scatenante. Ecco, il nostro contributo ha precisato che il maremoto di cui fu testimone Petrarca fu prodotto da una frana del vulcano Stromboli.
Un’ulteriore scoperta riguarda l’isola che si pensava fosse disabitata in epoca medievale. I resti della chiesetta, delle monete e delle sepolture attribuibili ad un periodo anteriore al 1350 indicano, invece, l’esistenza di piccoli insediamenti, probabilmente monastici.
Quali le ricadute della ricerca?
L’unico tsunami generato dal vulcano Stromboli del quale si conoscevano gli effetti, prima del nostro studio, era quello del 30 dicembre 2002 che aveva generato onde alte fino a sette metri nell’isola di Stromboli, ma si era poi depotenziato nella corsa verso le coste della Calabria e della Sicilia, raggiunte da un’onda di poco più di mezzo metro, quindi senza nessun effetto distruttivo.
La nostra ricerca documenta, invece, maremoti di più grande intensità e pone questioni di rivalutazione della pericolosità di questi tsunami originati da frane nel Mar Tirreno Meridionale, che potrebbero verificarsi ancora.
Questo significa che lo studio ha dato l’input per successive ricerche che i colleghi geofisici svilupperanno nel tentativo di modellizzare, da un punto di vista fisico, i possibili effetti di un’onda di maremoto simile a quelle medievali, così da contribuire a mettere a punto carte della pericolosità da tsunami nel Tirreno Meridionale e una più corretta valutazione del rischio per le popolazioni che vivono sulle coste della Calabria, della Campania e della Sicilia.
È possibile prevedere le frane vulcaniche?
Sì, è possibile. A Stromboli esiste un sistema di monitoraggio delle frane che potrebbero verificarsi sulla Sciara del Fuoco che prevede sia strumenti GPS tradizionali che intercettano eventuali deformazioni e spostamenti del terreno, sia tecniche più avanzate che segnalano quale area del versante è in movimento.
Tra tutti, il dispositivo più all’avanguardia è l’interferometro radar, posizionato a terra e direzionato verso la Sciara del Fuoco. Ad elaborare e interpretare queste frange interferometriche, per capire se tutto è nella norma, sono i colleghi fisici e geofisici.
Quali caratteristiche presentano le frane vulcaniche che più si correlano con le onde di tsunami?
Nel caso di maremoti generati dalle frane dei versanti di isole vulcaniche, il parametro direttamente correlabile con un eventuale grande tsunami è il volume di materiale che si riversa in mare.
Ma soprattutto non è da sottovalutare il fatto che in questi vulcani situati in mare, il cedimento non riguarda solo la parte subaerea che si vede, ma anche la parte della struttura sommersa. Quando, ad esempio, si parla di frane della Sciara del Fuoco si intende sia quella visibile perché al di sopra della superficie dell’acqua, sia quella sottomarina, con maggiori superfici di scivolamento e masse di materiale che possono entrare in gioco. Quindi ciò che più direttamente è da relazionare all’entità dell’onda di tsunami è la massa dei prodotti che franano sia nella sezione subaerea, sia nella parte sottomarina del vulcano: quella che determina le onde di maremoto più alte.
Si parla, ad esempio, di un’ipotesi di frana del vulcano Marsili, a nord di Stromboli. Un vulcano interamente sommerso che presenta versanti instabili, e che se dovesse collassare produrrebbe uno spostamento della massa sottomarina tale da generare un’onda di grandissima potenza.
Quindi l’interesse suscitato da questo nostro lavoro è un campanello d’allarme che si estende a tutto il Tirreno Meridionale, dove non solo Stromboli può generare frane, ma una serie di altri vulcani, anche sottomarini, considerati potenzialmente pericolosi per la conseguente formazione di onde anomale e tsunami di non prevedibile intensità.
Immagine in evidenza: blucolt – wikipedia.com