A casa del Duca è l’ampio discorso che Carlo Bo tenne il 20 giugno 1982, nella Sala del Trono di Palazzo ducale, aprendo le celebrazioni per il quinto centenario della morte di Federico da Montefeltro.
La prima parte di questo documento, che al pari degli altri scritti dedicati da Bo a Urbino trae la sua forza di rappresentazione dal quotidiano raccoglimento e ragionamento su un luogo patrimonio dello spirito, si affida oggi alla voce e all’interpretazione della storica dell’arte contemporanea Silvia Cuppini, legata all’Ateneo e alla città da uno stretto rapporto vasto e multiforme, diffuso nel tempo e sempre eclettico, distintivo.

L’insegnamento di Storia dell’Arte Contemporanea, la guida dell’Assessorato alla Cultura, l’allestimento professionale di mostre e installazioni, come quella, memorabile, per l’inaugurazione di Palazzo Passionei, la costituzione e la guida di una Associazione Culturale, e tanto altro ancora, raccontano una storia, una vita, fatta di lavoro e di passione, e potremmo anche dire di totale identificazione con questa incalcolabile realtà che è Urbino.

Partner del progetto internazionale Urbinate per sempre. Architetture della luce e dello spirito – ideato e coordinato da Tiziana Mattioli, docente di Letteratura italiana dell’Ateneo urbinate, e promosso nell’ambito del Prorettorato allo Sviluppo di Partenariati Strategici Nazionali e Internazionali – la Professoressa Cuppini, nell’intervista che segue, tratteggia di dettagli nuovi il profilo del Magnifico.

Per ascoltare e leggere i testi è possibile accedere al sito dedicato al progetto cliccando su eventi.uniurb.it/urbinate-per-sempre

 

La Professoressa Silvia Cuppini

Professoressa Cuppini, siamo felici di poter includere la sua testimonianza di voce e di interpretazione relativamente alle pagine che Carlo Bo ha dedicato al Palazzo ducale, proprio in una celebrazione centenaria come quella che si avvicina, il prossimo anno.

Ne sono felice anch’io. Sono molto grata a Tiziana Mattioli di avermi coinvolto in questo progetto perché l’occasione ha costituito un ripensamento sulla figura di Carlo Bo, sul ruolo che ha avuto per l’Università e per la città, ma ha costituito anche un ripensamento su quello che è stato tutto il percorso, abbastanza complesso, della mia vita: da quando ero studentessa, fino del termine della mia attività di docente che si è svolta all’interno dell’Università di Urbino.

 

Sono stata allieva di Bo e insegnante sotto il suo rettorato. Ho frequentato l’Università negli anni ‘60, quando Urbino era popolata di grandi maestri e le occasioni di incontro e di scambio, tra allievo e maestro, erano favorite dalla dimensione raccolta della città e dell’Ateneo.
Quello che ho vissuto da studentessa è stato il tempo di grande fermento creativo in cui Bo realizzava il progetto di rinnovamento e di crescita dell’Ateneo urbinate e della città stessa.

E cosa può raccontare del periodo successivo, dedicato all’insegnamento.

Negli anni in cui ho insegnato, Bo è stato un punto di riferimento costante. Ricordo che pur mantenendo un controllo strettissimo rispetto a tutto ciò che avveniva nell’Università – e nella città – lasciava la libertà assoluta di muoversi dentro le proprie scelte.
L’ho sempre visto e letto come un grande intellettuale e persona che teneva molto ad avere un suo ruolo preciso, quindi per me è stato il “capo” di questa grande istituzione.
Non c’è mai stato tra noi un rapporto confidenziale, anche perché io non l’ho cercato, eppure i nostri sono stati incontri importanti, sempre sostenuti da parole che infondevano fiducia e forza d’animo. E questo è stato molto gratificante.

Forse, dunque, è davvero questo il tempo per ripensare al rapporto che Bo ha intrattenuto con Federico, con la sua eredità spirituale ma anche materiale, architettonica. Come storica dell’arte, lei avrà certo una chiave di lettura che ci sorprenderà.

Bo da sempre ha sentito il fascino della parola e della letteratura. Alla dimensione dell’immagine, in quanto tale, era meno interessato, ma non poteva restare insensibile di fronte a un Palazzo capace di comprendere l’idea di una città intera, come il Palazzo Ducale di Urbino.
Bo capisce che è l’architettura il linguaggio che trasmette il senso di un progetto, più della pittura e della scultura che svolgono un compito più celebrativo.

 

Per questo, come Federico chiama gli architetti Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini così lui chiama Giancarlo De Carlo e affida all’architetto, all’urbanista, il progetto che ha in mente e che in sé racchiude il senso della crescita e dello sviluppo della città stessa.
In effetti, Bo parla dell’architettura come di un monumento di luce: a costruire il palazzo è la luce stessa, per cui, più che affascinato dalla potenza di questa immagine lo è dalla sua capacità di esprimere qualcosa di molto alto che ha a che fare non soltanto con la vista fisica ma con l’anima del mondo.
Ecco, tutti i testi che ha raccolto Tiziana Mattioli, e che parlano del Palazzo, stanno ad indicare questa forza evocativa.

C’è una consuetudine antica che Carlo Bo ha avuto con gli artisti. Con la magia metafisica di Piero della Francesca e la “bellezza e verità” del pensiero e dell’opera di Raffaello, ma anche col magistero di artisti a lui contemporanei.
Insomma, un dialogo intenso col peso e col significato della bellezza.
Come legge lei questa passione e interrogazione?

Bo è stato molto vicino alla Scuola del libro di Urbino, un istituto nato per la decorazione e l’illustrazione del libro in cui credeva moltissimo proprio in virtù del rapporto fra la parola e l’immagine che ne costituiva l’essenza creativa.
E agli artisti che hanno lavorato come insegnanti, o che si sono formati come allievi all’interno di questa Scuola, ha senz’altro dato la visibilità che meritavano. Non ha trascurato nessuna delle potenziali forze che trovava a Urbino e, in più, è riuscito a portare a Urbino il mondo, e questo è stato un altro suo grande merito.

 

Nel tempo del suo rettorato, la città è stata attraversata da figure molto importanti che hanno lasciato anche tracce di insegnamento. Penso ad esempio a Mario Luzi, e così anche ad altri personaggi che frequentavano l’Università. Bo non è stato un esteta, per lui la bellezza non è mai stata scissa da un significato. Per lui la bellezza era un bene morale e come tale doveva sempre procedere insieme alla virtù. La bellezza, prima di tutto, era la bellezza dell’anima.

Non possiamo dimenticare che lei ha avuto l’onere e l’onore di guidare, qui ad Urbino, l’Assessorato alla Cultura, e che in quel tempo ha promosso anche iniziative dedicate al cinquantesimo anno di rettorato di Bo. Vuole dirci qualcosa sul rapporto del Magnifico Rettore con la città, con l’identità dei luoghi?

L’esperienza della politica è stata interessante. Sono stata chiamata come collaboratrice e ho ricoperto questo ruolo sollecitata dalla mia grande curiosità. In quegli anni sono stata molto aiutata da tante persone, in particolare da Gilberto Santini e Lucia Pretelli che hanno facilitato il mio percorso grazie alle loro competenze e al loro grande impegno.

 

Ricordo che andai a trovare subito il Rettore e gli dissi “Magnifico, mi hanno dato questo incarico e io ho accettato, ma sembra un lavoro piuttosto complesso per una persona che non ha un’esperienza politica alle spalle”. E Bo – che era una persona di poche parole – mi rispose “ma che cosa credevi, che fosse facile?”, approvando, naturalmente, l’idea che qualcuno dell’Università svolgesse questa funzione, e incoraggiandomi anche a intraprendere la nuova strada.

 

In merito al rapporto con Urbino e gli urbinati mi sento di dire che Bo ha avuto un ruolo determinante rispetto a quello che era il modo di vivere dell’intera città. È stato sempre una persona che ha guardato intensamente alla sostanza delle cose e non ha mai tradito questa vocazione. Ha sentito la responsabilità di trasformare Urbino – che negli anni ‘30 era un piccolo borgo – in una città di risonanza mondiale e ha tenuto fede all’impegno attraverso un’operazione di grande forza, anche politica; intendendo il termine “politica” nella sua dimensione più alta.

Quale interazione il Magnifico costruiva con gli studenti?

Con gli studenti, Bo, aveva un rapporto di grande rispetto.
In rettorato, ad esempio, si entrava per ordine di arrivo non per ordine di ruolo, quindi se lo studente precedeva entrava prima del docente.
I giovani erano sicuramente al centro del suo interesse; erano al centro delle sue cure, per quello che riguardava la vita universitaria e la formazione naturalmente. E una straordinaria valenza formativa avevano le sue lezioni, declinate attraverso un certo modo meditativo di comunicare il sapere che era un pensare e un parlare insieme di forte impatto.
Certamente il Magnifico sentiva la responsabilità di quello che poi gli studenti avrebbero fatto nel mondo.

Come le piace ricordare Carlo Bo?

Mi piace ricordarlo nel silenzio della sua casa, che era molto vicina alla mia.
Il suo giardino confinava con il mio giardino, e nei pomeriggi estivi ascoltavo la sua presenza silenziosa e il ticchettio della sua macchina da scrivere che raccontava un modo attivo di porsi nelle cose e, insieme, rassicurava.

 

Silvia Cuppini. Immagine: Valentina Fontanella.

 

Pin It on Pinterest

Share This