Per Sonia Morra, nata altrove nel 1930, Urbino è stata una scelta di radicamento spirituale e culturale. È stata urbinate non per diritto anagrafico, ma per necessità interiore. Insegnante di Lettere, intellettuale militante – insieme al marito Livio Sichirollo, filosofo e docente Uniurb – ha vissuto l’educazione come forma di libertà civile. Non solo, nella città ducale Sonia Morra ha saputo custodire l’opera di Giancarlo De Carlo perché ne condivideva il sostrato di pensiero e tensione etica. Abitava infatti in una delle case più radicali e di segreta poesia, progettate dall’amico architetto, tra le colline del Montefeltro: Ca’ Romanino. Uno spazio privato che ha donato e aperto alla vita collettiva dell’omonima Associazione e poi della Fondazione Ca’ Romanino: oggi luogo di ricerca e laboratorio di cultura pubblica.
Per restare in ascolto del ricordo di Sonia Morra e della forza silenziosa della sua intelligenza, mancata lo scorso 6 maggio, abbiamo intervistato chi la conosceva: Monica Mazzolani, Architetto dello Studio MTA Associati – Giancarlo De Carlo.

 

L’Architetto Monica Mazzolani

Architetto Mazzolani, quando ha conosciuto Sonia Morra?

Ho conosciuto personalmente Sonia Morra nel 2002, in occasione delle visite organizzate per mostrare ai cittadini urbinati l’avanzamento dei lavori nel cantiere della Data, in vista del completamento del primo stralcio. Avevo, in alcuni casi, guidato le visite in rappresentanza della Direzione lavori che seguiva l’intervento di recupero. Era stato De Carlo a sollecitare quelle visite: una, aperta a tutti, si era già svolta con discreto successo. Il suo obiettivo era chiaro: tenere viva l’attenzione intorno al progetto, far crescere nei cittadini la consapevolezza della sua utilità, e così promuovere la ricerca di nuovi finanziamenti per portarlo a termine. A Sonia il progetto che stava prendendo forma nelle ex Stalle Ducali piacque subito.

“Piacque subito” perché Sonia Morra condivideva con De Carlo un particolare modo di osservare il mondo?

Si capiva che, negli anni, aveva sviluppato una profonda sintonia con il pensiero e con l’architettura di De Carlo, di cui riusciva a cogliere le intenzioni più profonde e gli obiettivi ultimi. Sonia era aperta e curiosa, veniva da un’esperienza di insegnamento di Lettere di oltre quarant’anni nelle scuole medie e superiori. Aveva iniziato la sua carriera a Urbino, poi si era trasferita a Milano, dove era diventata preside in una delle scuole sperimentali di Rinascita.

 

Il suo approccio educativo si fondava sui valori della democrazia e della libertà: il suo obiettivo era formare cittadini consapevoli e critici, in opposizione a ogni forma di autoritarismo. Condivideva molti dei principi pedagogici che De Carlo aveva sostenuto nel tempo e conosceva bene l’Osservatorio Civico ideato da Patrick Geddes a Edimburgo, cui De Carlo si era ispirato nel progetto della Data come Osservatorio della città. Questa sua conoscenza le permise di cogliere che non si trattava solo di un luogo fisico, ma di un dispositivo concettuale per leggere, comprendere e trasformare la città.

Immaginava, forse, che la Data potesse ospitare quella stessa intelligenza civica?

L’Osservatorio di Edimburgo era un vero laboratorio urbano, in cui cittadini, studenti e studiosi potevano esplorare la città nella sua complessità storica, sociale, geografica e architettonica. Anche la Data, nel tempo, avrebbe potuto assumere quella funzione, attivando progressivamente le diverse anime che in essa convivevano: quella espositiva, quella laboratoriale, quella legata alla promozione di pratiche partecipative e interdisciplinari nei campi dell’urbanistica e della pedagogia civica e, ancora, quella di supporto alla comunità e all’Università, come la biblioteca, ispirata al modello del “San Giovanni” di Pesaro. In quel periodo Sonia frequentava anche lo studio, perché stava maturando l’idea di destinare a sede di un’associazione la bellissima casa che, tra il 1967 e il 1968, Giancarlo De Carlo aveva progettato e realizzato per lei e suo marito Livio Sichirollo, e desiderava avere la sua approvazione.

C’era in quella scelta la volontà di “rigenerare” il corpo architettonico di Ca’ Romanino per restituire al territorio esperienze vive e partecipate?

Uno degli obiettivi di Sonia era tutelare e valorizzare tutte le opere di De Carlo a Urbino, compresa la sua Ca’ Romanino che amava profondamente. De Carlo parlava di lei con ammirazione e le era profondamente grato per la generosità e il disinteresse che quella scelta esprimeva. Ne elogiava la coerenza, la purezza intellettuale, la determinazione con cui perseguiva quell’obiettivo senza alcun calcolo personale, investendovi tutte le sue energie fino a farne una vera e propria ragione di vita. Sonia non si tirava indietro. Con intensità ed emozione, voleva mettere quella casa – che tanto aveva significato per lei – a disposizione della comunità degli intellettuali e degli amici di De Carlo, affinché potesse continuare a testimoniare e a mantenere viva la sua visione.

 

Sonia Morra era nata nel 1930 e aveva vissuto – già adulta – una delle stagioni più ricche e felici dell’Università di Urbino, alla cui fioritura aveva contribuito anche il marito, Livio Sichirollo, filosofo e docente. Erano due intellettuali militanti, convinti della necessità di prendere posizione e di assumersi responsabilità politiche, tanto nella vita quanto nel lavoro. Non a caso, tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70, Livio fu Assessore all’Urbanistica e fece di quell’esperienza un laboratorio di partecipazione sociale. Era un’epoca in cui ci si incontrava per discutere, per condividere idee, letture, esperienze. E Ca’ Romanino, fin dall’inizio, divenne un luogo ideale per quei momenti di confronto: un punto di riferimento per artisti e intellettuali.

 

 

 

Mi racconta la casa e la visione che la abitava?

La casa era stata pensata per accogliere ospiti in stanze indipendenti, con accessi separati e persino una piccola cucina autonoma, a sottolineare l’idea che ciascuno potesse godere di uno spazio individuale per apprezzare meglio i momenti di socialità. Ci si ritrovava poi nella grande stanza comune, con un ampio camino e una magnifica vetrata affacciata sulla vigna, che accoglieva tutti con calore. Le cene erano memorabili e si beveva il vino rosso prodotto lì, tra i filari che circondavano la casa. Ho avuto il privilegio di essere ospite di Sonia nei giorni immediatamente successivi alla formalizzazione dell’atto costitutivo dell’Associazione, nel 2005, subito dopo la morte di Giancarlo.

 

Ricordo di aver dormito in una delle piccole stanze della casa, dove la luna, ben visibile attraverso un lucernario posizionato sopra il letto, illuminava le pareti. L’essenzialità di quello spazio mi riportava alle stanze del Collegio del Colle, dove avevo spesso alloggiato durante la realizzazione dei progetti dello studio. In entrambi i casi era evidente il delicato equilibrio tra spazi individuali, natura e aree comuni, un equilibrio che De Carlo aveva saputo tradurre in architettura. Sapevo bene che a esaltare la presenza del paesaggio contribuiva anche la semplicità, quasi monastica, con cui le stanze individuali erano state concepite, e a Ca’ Romanino ritrovavo quella stessa intimità confortante, quella connessione profonda tra l’abitare e il paesaggio circostante.

In effetti, Ca’ Romanino ricorda per struttura e spirito i nostri Collegi universitari.

Non solo! La casa era diventata anche un laboratorio di prova che aveva permesso a De Carlo, in vista della realizzazione del Collegio del Colle, di verificare idee e sperimentare materiali. E si può facilmente immaginare che il progetto stesso dei Collegi – l’ambizioso progetto con cui l’Università di Urbino avrebbe fatto un vero e proprio cambio di passo – sia stato spesso oggetto di quelle conversazioni tra amici di cui dicevo prima. Quando il progetto della casa stava prendendo forma, De Carlo non aveva mancato di arricchirlo di sorprese: scale che permettono di infilarsi nell’imbotte delle finestre e accoccolarsi per guardare la valle; scale vertiginose che collegano segretamente la parte degli ospiti al soggiorno; porte girevoli che aprono completamente lo studio per metterlo in comunicazione con il paesaggio. Un luogo di grande meraviglia.

Fu in quel periodo di grande fermento che il suo rapporto con Sonia Morra assunse una nuova profondità?

Sì. in quel periodo ho avuto modo di conoscere più a fondo Sonia. Era un momento intenso, ricco di incontri e riflessioni, durante il quale si raccoglievano idee e contributi per delineare il percorso che avrebbe portato alla nascita della Fondazione Ca’ Romanino. In quei giorni ho potuto apprezzare la profonda intimità che Sonia aveva con quel luogo. Il suo grande amore e rispetto per la vita e per la natura si riflettevano nel suo impegno a mantenere viva l’anima della casa, trasformandola in un centro di incontro e riflessione aperto alla comunità degli intellettuali e degli amici di De Carlo. Credo anche che il gesto generoso con cui Sonia lasciava alla Fondazione la proprietà della casa, dopo la sua morte, avesse lo scopo di mantenere l’eredità di De Carlo viva e fruibile per tutte le future generazioni.

 

Immagini.
Sonia Morra: credits Stefania Galli.
Ca’ Romanino: credits Giorgio Casali.

 

 

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