Non sono tante, il più delle volte è una, se siamo sufficientemente fortunati sono due o tre le cose che a farle, o a sentircele girare intorno dopo averle fatte, danno la misura esatta di ciò che siamo veramente. Non sappiamo quante e quali siano quelle che muovono la vita di Marcella Peruzzi, eppure una di queste la intercettiamo mentre scivola nel fiume di parole che mette in fila con slancio rapidissimo ed emozionato quando racconta di codici miniati, di biblioteche e di una certa, preziosissima, collezione libraria.
“Se entro in una stanza guardo i libri prima di qualunque altra cosa”, del resto è Coordinatrice dell’Area Scientifica presso il Sistema Bibliotecario del nostro Ateneo. “Amo molto, del mio lavoro, la possibilità di offrire un servizio a chi vuole studiare, leggere e appropriarsi della conoscenza attraverso il patrimonio librario di cui disponiamo. Mi piace l’idea di essere intermediario tra libro e fruitore, e di contribuire a rendere questa intermediazione più efficace possibile”.
In Italia è tra i massimi esperti della Biblioteca di Federico da Montefeltro e in particolare dei codici latini che la compongono, tant’è che la Biblioteca Apostolica Vaticana l’ha voluta nel team di ricerca che ha redatto il terzo volume della sua storia colossale, La Vaticana nel Seicento (1590-1700): Una biblioteca di biblioteche.
Una Biblioteca di biblioteche, appunto, che nel Seicento ha acquisito e trasferito a Roma, insieme alla Palatina di Heidelberg e alla collezione di Cristina di Svezia, la Biblioteca di Urbino nella sua totalità.
La collaborazione di Marcella Peruzzi con la BAV ha un precedente importante che si chiama Ornatissimo Codice: la mostra organizzata nel 2008 di concerto con la Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici delle Marche, l’Università di Urbino e la Biblioteca Vaticana stessa.
“In Vaticana, l’accesso ai manoscritti della Biblioteca di Federico è consentito ai soli studiosi pertanto, attraverso la mostra che ho contribuito a ideare e a organizzare, ho realizzato il sogno di permettere ai cittadini di Urbino di vedere non solo alcuni di quei codici, ma di ammirarli nei luoghi dove Federico da Montefeltro li aveva collezionati”. Anche attraverso la ricostruzione virtuale della Biblioteca stessa, fruibile in forma digitale e permanente nelle sale di Palazzo Ducale.
Da questa fondamentale occasione di approfondimento scientifico che ha esposto i codici e fornito nuove informazioni sulla composizione della raccolta ducale, si è concretato lo step collaborativo conseguente dell’esame del fondo urbinate. Un lavoro durato circa tre anni e pubblicato nel terzo volume della Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana col titolo Lectissima politissimaque volumina: i fondi urbinati.
Curiosi di conoscere più da vicino i fatti di una Biblioteca che sentiamo un po’ anche nostra e con la quale avremmo avuto consuetudine se fosse rimasta a Urbino, a Marcella Peruzzi abbiamo chiesto…
Ad un certo punto della sua storia, la Biblioteca di Urbino diventa la Biblioteca di una Biblioteca, quella Apostolica Vaticana. Da lì in poi viene identificata come “fondo urbinate” e a caratterizzarla sono due nuclei librari fondamentali: la collezione dei Montefeltro e quella dei Della Rovere. Questo l’epilogo. Il prologo ha tutt’altra piacevolezza e rimanda al “c’era una volta” della raccolta di Federico da Montefeltro. Ce lo racconta?
La Biblioteca di Federico da Montefeltro è una delle più belle e più citate nella storia delle biblioteche quattrocentesche. Comprende 900 codici, 600 dei quali latini e volgari, 168 greci, 82 ebraici e 2 arabi e la sua storia si svolge tra la fine degli anni ‘50 del Quattrocento e il 1508. È una collezione composta quasi esclusivamente di manoscritti. Si trovano elencati tra i suoi volumi soltanto tre libri a stampa su 900 esemplari, ma anche questi miniati in modo tale che solo l’occhio esperto riesce a cogliere la differenza.
La raccolta comprende soltanto esemplari unici di grande pregio perché è parte integrante di un preciso progetto politico. Ha l’obiettivo, cioè, di contribuire ad affermare l’immagine del Duca come mecenate e patrono delle arti, a dispetto delle sue origini controverse. Non a caso, tutti i testi sono corredati di imprese e stemmi del casato dei Montefeltro. Questo avviene non solo per gli esemplari che Federico fa realizzare ex novo, ma anche per quelli che acquista da precedenti proprietari, i quali, una volta arrivati a Urbino vengono sistematicamente ridecorati su indicazione del Duca all’interno dello scriptorium di Palazzo, un luogo della corte specializzato nella trascrizione e nella miniatura dei codici. Tant’è che i fogli di apertura dei manoscritti, presentano spesso degli antiporta decorati secondo uno stile specifico. Evidentemente, l’intenzione di Federico è quella di creare una biblioteca che ne rappresenti l’immagine personale tanto quanto il Palazzo Ducale. Esiste, infatti, un gioco di rimandi continuo tra le decorazioni dei portali, delle finestre e dei soffitti della residenza replicati nei frontespizi dei manoscritti.
Di certo, la politica culturale è per Federico da Montefeltro un investimento importante che contribuisce a costruire l’immagine pubblica del principe guerriero e letterato rappresentata magnificamente nel famoso ritratto del Berruguete. Sulla tela, il Signore di Urbino che indossa un’armatura tiene in mano un grande codice, un libro rilegato in rosso e arricchito di cantonali in metallo pregiato. Questa è la rilegatura che Federico sceglie per i suoi libri preferiti, e gli autori di questi libri sono rappresentati tra gli uomini illustri dello Studiolo.
La seconda anima del fondo urbinate è la raccolta dei duchi Della Rovere.
Sì. Al riguardo spicca la figura di Francesco Maria II, raffinato bibliofilo, che crea una Biblioteca diversa e separata da quella di Federico da Montefeltro. Il Duca raccoglie a Urbania una collezione enorme, con più di 13.000 volumi in prevalenza a stampa, aggiornatissima anche dal punto di vista scientifico. Allo scopo, assembla manoscritti e stampati insieme, distinguendoli sulla base del contenuto piuttosto che sul tipo di formato. Il dato sorprendente in proposito è che nelle disposizioni testamentarie Francesco Maria II segnali, invece, una diversa collocazione degli stessi testi a seconda della loro natura, affidando i volumi a stampa ai padri Caracciolini di Urbania e i manoscritti, insieme a quelli dei Montefeltro, alla città di Urbino.
Nel saggio analizzo i circa 700 manoscritti lasciati dal Della Rovere alla città di Urbino, e mi interrogo sulle ragioni che hanno spinto il Duca a suddividere in questo modo il suo prezioso lascito. L’indizio più esplicito sul quale ho riflettuto riguarda il legame che la maggior parte di queste opere ha con la famiglia dei Della Rovere. Numerosi sono testi teatrali messi in scena alla corte di Urbino, altre sono opere di carattere narrativo dichiaratamente dedicate a personaggi del casato, altre ancora sono memorie di battaglie o resoconti finanziari, ma tutte ruotano intorno alla famiglia ducale o al suo territorio. Pertanto è probabile che, riguardo al lascito dei manoscritti, Francesco Maria II abbia individuato proprio nella città di Urbino l’erede ideale del Ducato e della sua magnificenza, quasi sacrario delle memorie della dinastia Montefeltro – Della Rovere.
Ci piacerebbe immaginare per la Biblioteca, finalmente ricomposta a Urbino, un più che legittimo happy end. Invece…
Con Francesco Maria II la lunga stagione del Ducato si conclude. Nel 1631 i suoi codici vengono trasferiti da Urbania a Urbino per riunirli insieme a quelli di Federico, che non sono mai stati spostati dal Palazzo Ducale. Vari documenti di consigli comunali attestano come la cittadinanza cerchi di fare propria questa Biblioteca, nominando e assegnando compiti specifici a una serie di bibliotecari, regolando gli orari di apertura al pubblico e cercando di utilizzarla e farla funzionare al meglio.
Purtroppo però la raccolta durantina arriva a Urbino quando la città comincia ad accumulare parecchi debiti. E mentre la comunità attraversa una fase di grave crisi economica, nel 1643 uno dei maggiori eruditi dell’epoca, Lucas Holste, in occasione di un suo viaggio per conto del Cardinale Barberini, fa tappa a Urbino, visita la Biblioteca, ne rimane incantato e si fa promotore del processo di acquisizione della stessa da parte della Biblioteca Vaticana. Quattordici anni dopo, la città accoglie la proposta di “acquisto“ avanzata dal Papa Alessandro VII e il Consiglio comunale vota a favore della cessione della Biblioteca ducale in cambio di 10.000 scudi e alcuni privilegi. È il 1657. Tra la fine di ottobre e i primi giorni di dicembre, i convogli che trasportano i volumi, viaggiano faticosamente per 41 giorni e raggiungono Roma. Poco più tardi la Vaticana avvia un accurato lavoro di analisi, collocazione e rilegatura del Fondo Urbinate. Possiamo dire che la Biblioteca ducale viene trattata con tutta l’attenzione che merita per la sua eccezionalità.
A conti fatti, per la città di Urbino l’acquisizione della Biblioteca è svantaggio che si fa privilegio?
La collezione è stata sottratta alla città, ma ci dobbiamo domandare che fine avrebbe fatto altrimenti. Certamente il trasferimento ne ha garantito la sopravvivenza, la catalogazione e la fruizione. Non possiamo sapere cosa sarebbe successo se fosse rimasta a Urbino, ma dobbiamo tener conto che tra le grandi biblioteche manoscritte dei Principi e dei Signori del Quattrocento, soltanto quella di Urbino dei Montefeltro e quella di Cesena di Novello Malatesta sono conservate attualmente in un’unica collezione, praticamente corrispondente all’originale, e non disperse o in larga parte andate perdute. Quindi, per quanto il trasferimento a Roma possa essere ancora oggi per noi Urbinati motivo di rimpianto, sicuramente ha garantito che la Biblioteca dei Duchi si mantenesse intatta.