Probabilmente gli antichi romani non avrebbero capito l’Expo. Non che non ne avrebbero capito la portata simbolica. Ma la filosofia di fondo, a sostegno di uno stile di vita sostenibile.
La sostenibilità non era proprio tra le principali preoccupazioni dell’antica Roma. Approccio che è stato al centro di “(As)saggi: cibo e cultura”, l’incontro che si è svolto giovedì nella Sala del Maniscalco a cura di Anna Santucci e organizzato dal Discum (Dipartimento di scienze della Comunicazione e Discipline Umanistiche) dell’Università di Urbino, con il patrocinio della Regione Marche, di Expo 2015 e della Città di Urbino.
Oggi, per dire, sottoscriveremmo senza battere ciglio le parole di apertura del Rettore dell’Università di Urbino, Vilberto Stocchi, a sostegno del mangiar sano: “Già Ippocrate – ha ribadito il Magnifico, anticipando i saluti della vicesindaco Maria Francesca Crespini che ha ringraziato l’Ateneo per il lavoro di ricerca e approfondimento – insisteva sull’importanza di una corretta alimentazione unita all’attività fisica”. Non avremmo alcun problema ad avvallare il concetto che i dati sull’obesità nelle popolazioni di Paesi industrializzati sono preoccupanti. Ma un cittadino dell’antica Roma? In linea teorica ci avrebbe dato l’assenso su alcune questioni ma al momento di scegliere le portate sarebbero venute fuori tutte le incolmabili distanze.
Archeologia in cucina. In realtà ce ne saremmo accorti prima, a proposito del design della tavola. Davanti a “Il ministerium romano”, che è stato anche il titolo dell’intervento della professoressa Maria Elisa Micheli, docente di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana, avremmo arricciato il naso. Dover consumare nel piatto ornato dall’effigie del defunto antenato del padrone di casa (situazione descritta da Virgilio) ci avrebbe inorridito. Sulle vivande da servire avremmo senza dubbio alzato i tacchi. “I romani – ha spiegato il professor Roberto Maria Danese, docente di Filologia Classica, Letteratura e Cinema affiancato nella sua relazione dalla recitazione del gruppo teatrale “La Resistenza della Poesia” – amavano una zuppa di interiora di pesce lasciate marcire al sole”. Che poi la prassi culinaria sia quella più popolare, descritta da Plauto nelle suo opere, o quella di Trimalcione, pacchiana, patologica, scenografica, il disaccordo persisterebbe. Figurarsi poi se dopo il protezionismo di leggi come la Lex Fannia Cibaria, che limitavano l’influenza ellenistica (e raffinata) a tavola, vietando uccelli esotici e vini “stranieri” avremmo gradito i consigli culinari del nostro commensale. E di fronte al cuoco dello Pseudolus di Plauto il convitato vegetariano si sarebbe fatto venire i capelli bianchi: “Lo sai – chiede questi a Ballione – perché gli uomini hanno una vita così breve? Perché si riempiono la pancia di erbacce che danno il voltastomaco soltanto a nominarle, puh, figurarsi a mandarle giù. Erbe, delle erbe che nemmeno una bestia brucherebbe, chi è che se le mangia? L’uomo”.
Su una cosa, forse, ci sarebbe stata una cinica sintonia: attorno all’ironia caustica e affatto moralistica riservata all’imperatore Vitellio, rappresentato come “modello iconografico” di ingordigia. “Profunda ac sordida gula”, l’imperatore grasso, di cui si è occupata Anna Santucci, docente di Archeologia greca e romana.
Morale: il cibo rimane centrale, fattore di godimento e cultura, nonostante i secoli. Ma è il rapporto con l’uomo che viene stravolto. Ciò che mangiamo insomma è frutto di ciò che pensiamo, con buona pace di Feuerbach e del materialismo.