Sui brevetti è recentemente arrivata una nota che fa definitivamente chiarezza. Il caso che fa scuola è Urbino. Questo spiega perché il prossimo 29 aprile la Carlo Bo, con il supporto dell’Ufficio Terza Missione, ha fissato l’incontro Fisco e brevetti. Trattamento fiscale dei compensi degli inventori delle Università e degli Enti pubblici di ricerca. Un evento, che si svolgerà in videoconferenza (basterà registrarsi per riceve il link YouTube), a cui interverranno esperti di diritto tributario, moderati da Maria Carla de Cesari, giornalista del Sole24Ore. Servirà a fare il punto su una questione di cui si discute da anni e che adesso ha trovato finalmente una soluzione.
IL CASO. Stiamo parlando, tanto per mettere a fuoco protagonisti e tratti essenziali della vicenda, dei titolari di brevetto che sono anche dipendenti di enti pubblici, nella fattispecie delle università, e dei vantaggi economici che derivano dalla loro invenzione. Nel 2001 era stata la legge numero 383 a disciplinare i rapporti tra ente e inventore, ma senza essere sufficientemente esplicativa, così da impedire un’applicazione omogenea del testo in tutti gli Atenei. L’Università di Urbino, recependo la normativa, prima si è dotata di un Regolamento in materia di brevetti e di proprietà industriale, poi si è spinta oltre, nel tentativo di aggiungere un capitolo nuovo e completamente diverso alla storia. È stato il professor Mauro Magnani, docente di biochimica, ad afferrare il timone di un importantissimo cambiamento che è destinato a fare la differenza.
“Già da tempo con la legge n. 383 – spiega – i ricercatori universitari e i docenti avevano diritto a brevettare a proprio nome, sulla base dell’esperienza di altri Paesi. Una notevole conquista rispetto al passato, quando questo diritto era soltanto morale e la titolarità era esclusiva dell’ente pubblico. Sulla scorta della normativa molti atenei avevano definito il rapporto amministrazione/inventore, riconoscendo a quest’ultimo il 50% dei ricavi. L’iter è esattamente questo: l’inventore presenta la domanda di brevetto e ne dà comunicazione all’amministrazione, che stabilisce l’importo massimo del canone che le spetta relativo a licenze a terzi per l’uso dell’invenzione. In tutto ciò l’inventore ha diritto a non meno del 50% dei proventi o dei canoni di sfruttamento dell’invenzione. Qualora l’amministrazione non dovesse provvedere a stabilire alcun importo la quota riservata scenderebbe al 30% dei proventi”.
Che cosa ha impedito un’applicazione omogenea della normativa?
Premesso che c’è voluto del tempo affinché gli atenei recepissero nei loro regolamenti la 383, e il successivo decreto legislativo 30 del 2005, il problema è sorto a causa dell’inquadramento fiscale dell’inventore. Due le opzioni: considerarlo come percettore di reddito da lavoro autonomo, dunque con agevolazioni fiscali, oppure calcolare gli introiti derivanti dall’utilizzo dell’invenzione in busta paga, con tutte le trattenute che, sostanzialmente, equivalgono alla metà degli importi. Le università sceglievano deliberatamente una delle due opzioni.
Chi ha avanzato i primi dubbi interpretativi?
Dopo un’ampia discussione, pareri legali e approfondimenti, il professor Giorgio Calcagnini, prorettore vicario, si è adoperato affinché l’Università di Urbino, in collaborazione con altri atenei, rivolgesse un interpello all’Agenzia delle Entrate per chiedere di assumere una posizione ufficiale.
Qual è stata la risposta?
Partendo da un caso reale è stato identificato un percorso chiaro, messo nero su bianco. L’Agenzia delle Entrate ci ha dato una risposta dettagliata e ben documentata. Ha ritenuto che i compensi spettanti in esito alla cessione di un brevetto “ricadono nell’ambito della disciplina di cui all’art.53, comma 2, lettera b) del TUIR”, il Testo Unico delle Imposte sui Redditi. Sono cioè redditi da lavoro autonomo e come tali vanno tassati.
Dunque il caso di Urbino ha fatto scuola. Chi ha vinto?
È una situazione win-win, che premia sia gli atenei, che in questo modo sono stimolati a stabilire l’importo dell’introito, sia gli inventori, al cui reddito vengono applicate aliquote molto più vantaggiose. Fino a qualche tempo fa, per i ricercatori pubblici italiani (perché all’estero esistevano già forme di premialità), non c’erano incentivi a brevettare. Nei concorsi i brevetti non venivano addirittura considerati, a differenza delle progressioni di carriera. Il ricercatore pubblico – è il pensiero fondante di questo atteggiamento – deve fare ricerca pura. Una evidente perdita in termini di innovazione: se non sarò incentivato a farlo, abbandonerò la mia idea. Ora finalmente si è compreso che anche la ricerca pura ha un impatto sociale che va tutelato e che deve portare benefici, anche economici. Personalmente credo che questa non sia una possibilità, ma un dovere di chi fa ricerca: progettare per la collettività.
Dunque il terzo vincitore è il sistema, che saprà valorizzare meglio le idee?
Sì, evitando anche il rischio che a fermare i brevetti siano gli adempimenti burocratici, molto più semplici da gestire se a farlo è un ufficio specializzato.
Qualche anno fa si è iniziato a discutere di brevetto europeo unitario per abbattere i costi di certificazione nei singoli Paesi Ue e favorire la cooperazione. Si sono fatti passi avanti?
Non c’è stata la ratifica della proposta, anche perché la discussione si è bloccata quando si è trattato di stabilire le lingue ammesse per la presentazione della documentazione. Molto intelligentemente l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi ha bypassato il problema delegando la valutazione di brevettabilità all’EPO, l’omologo ufficio europeo. Se per ottenere un brevetto europeo deposito la mia domanda in Italia, questa viene presa in carico direttamente in Europa, eliminando così doppi passaggi.
Il numero di brevetti è un modo per misurare l’innovazione e questa è strettamente legata alla crescita di un Paese. Gli Stati Uniti, a livello globale, guidano la classifica. In Europa domina la Germania. L’Italia, superati i tecnicismi, può guadagnare terreno velocemente?
Negli Usa è fortemente strutturata la cultura dell’imprenditorialità, ci sono incentivi e uffici che si occupano della brevettabilità. Certamente sono un modello di riferimento per l’Italia e per l’Europa, ma si tratta di un percorso, risultati simili richiedono molto più tempo.
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