Michela Maione, docente di Chimica dell’Ambiente e dei Beni Culturali.

La rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America) ha pubblicato uno studio internazionale, al quale ha collaborato anche l’Università di Urbino, che rileva la crescita di tre sostanze corresponsabili del buco nell’ozono.

Professoressa Maione quali sono e da dove provengono queste sostanze?

Si chiamano idrofluorocarburi (HFC) e, come quasi tutti i gas dannosi per l’ozono, sono composti di sintesi. Quelli citati nell’articolo di PNAS , diversamente dagli altri, sono definiti “non intenzionali”. Non vengono cioè prodotti per qualche uso specifico, ma derivano da altre lavorazioni industriali. Per questo motivo non sono regolati dal Protocollo di Montreal. La rete globale di osservatori ha permesso di rilevare immediatamente che le concentrazioni di questi composti, molto stabili, sono inaspettatamente in crescita. Combinando poi le misurazioni con la modellistica atmosferica è stato possibile circoscrivere la regione (il sud-est asiatico) in cui avviene il grosso delle emissioni.

Da chi è composto il gruppo di ricercatori Uniurb e in che modo ha partecipato alla collaborazione internazionale?

Oltre a me c’è il dottor Jgor Arduini, che operativamente porta avanti il lavoro sperimentale, nonché l’analisi dei dati. Grazie alle pregresse collaborazioni con i colleghi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, abbiamo avuto la possibilità di installare la nostra strumentazione presso l’Osservatorio “O. Vittori”, che si trova sul monte Cimone ed è  gestito dall’Istituto per le Scienze dell’Atmosfera e del Clima (ISAC) del CNR.  Siamo poi entrati a far parte della rete globale in virtù della nostra partecipazione a un progetto finanziato dalla Commissione Europea che aveva l’obiettivo di costruire una rete europea per questo tipo di misure. Nel giro di un paio di anni la rete europea è stata inserita nella rete globale.

Il Protocollo di Montreal riguarda l’emissione di gas ozono-distruttori in 197 Paesi del mondo. Dal 1987 ad oggi quali sono i risultati ottenuti? E (ripasso) che cosa comporta il buco nell’ozono per la salute dell’ecosistema e per la qualità della vita?

Il Protocollo di Montreal è considerato uno dei maggiori successi della cooperazione internazionale. Grazie alla larga partecipazione e al meccanismo del Protocollo, i livelli atmosferici delle sostanze dannose per l’ozono sono in costante discesa. Purtroppo la decrescita è molto lenta, perché si tratta di composti molto stabili che permangono per decenni nell’atmosfera. A ogni modo è stato stimato che in assenza del Protocollo di Montreal, già a partire dal 2030, saremmo stati esposti a una quantità di radiazione UV pari al 500% dello scenario di base, con conseguenze gravissime per l’uomo (melanoma e cataratta) e per l’ambiente in genere (mutazioni genetiche).

Qual è il rapporto con altri strumenti di strategia ambientale come il Protocollo di Kyoto?

Per fronteggiare problemi globali, come la distruzione dell’ozono e il cambiamento climatico, sono necessari accordi globali. Entrambi i protocolli lo sono, ma il Protocollo di Montreal ha registrato una maggiore adesione (gli USA sono sempre stati in prima linea) rispetto al Protocollo di Kyoto. Il meccanismo è molto diverso, diverse anche le specie chimiche in gioco. Il Protocollo di Montreal è legally binding: i Paesi che lo hanno firmato si impegnano, seppur con tempistiche differenti, a non produrre e non usare più i composti incriminati, mentre il Protocollo di Kyoto si pone l’obiettivo di ridurre le emissioni di un paniere di composti provenienti da molteplici sorgenti.

Parlando di buco nell’ozono quanto impattano i comportamenti individuali?

In questo caso non molto. Tuttavia è interessante ricordare quanto è successo negli Stati Uniti negli anni ’70: uno degli usi dei composti dannosi per l’ozono è negli spray, come propellenti. Ebbene, quando si è iniziato a sapere della pericolosità di questi composti, le vendite delle bombolette sono crollate. Un fenomeno che ha spinto l’industria americana a non investire più nel settore. Detto questo, se andiamo a considerare l’applicazione più diffusa dei composti ozono-distruttori come fluidi refrigeranti negli impianti di raffreddamento fissi e mobili, sono necessari cambiamenti strutturali, con un aggiornamento della tecnologia.

Tra scienziati delle grandi potenze mondiali (Usa, Russia), ma anche di quelle emergenti (Cina e India), c’è una comune etica ambientale?

In questo momento la rivalità economica tra potenze come USA e Cina non aiuta. E comunque la linea politica ambientale di un Paese dipende moltissimo da chi è al comando. Basti vedere quello che è successo in merito alla partecipazione americana all’accordo di Parigi sul clima: dentro con Obama, fuori con Trump e di nuovo dentro con Biden. Non è soltanto una questione di area politica, sebbene i partiti conservatori siano notoriamente reticenti a implementare politiche ambientali spinte. Un esempio del recente passato può essere molto esplicativo: i due grandi promotori del Protocollo di Montreal sono stati USA e UK, quando a governare erano politici di area conservatrice. Ronald Reagan, repubblicano, ma da sempre molto attento all’ambiente e Margaret Thatcher, conservatrice ma con una laurea in chimica, dunque in grado di comprendere a fondo la scienza alla base della teoria sulla distruzione dell’ozono.

La violazione degli accordi di Montreal comporta delle sanzioni?

Sì. Come dicevo prima, le disposizioni del Protocollo di Montreal sono legally binding.

È ottimista sulla governabilità di processi globali (pensiamo ad esempio ai cambiamenti climatici) che coinvolgono i diversi interessi economici dei diversi Paesi?

Non si può essere ottimisti davanti allo stato delle cose. Il mio timore è che la situazione diventi ingestibile con una rapidità tale da non potervi porre rimedio. Una situazione che può essere assimilata a quella che stiamo vivendo con la pandemia da Covid-19. Da anni gli scienziati avevano lanciato l’allarme e ne avevano previsto l’insorgere, eppure nessuno si è mostrato preparato ad affrontarla. Allo stesso modo la comunità scientifica da decenni avverte sulle possibili conseguenze del continuo aumento delle emissioni di gas climalteranti, ma sembra che nessun Paese sia pronto a una vera transizione ecologica.

Quanto conosciamo delle cause di fenomeni come il buco nell’ozono?

Del buco dell’ozono sappiamo moltissimo. La cosiddetta smoking gun, cioè la prova certa della responsabilità degli idrocarburi alogenati, è stata trovata negli anni ’80 da Susan Solomon, del Massachusett Institute of Technology. Si tratta di misurazioni atmosferiche effettuate durante un volo nella stratosfera antartica prima, durante e dopo la formazione del buco, che hanno rilevato un aumento del cloro reattivo esattamente in corrispondenza della diminuzione dell’ozono.

Le osservazioni che riguardando l’ozono risalgono agli anni ’70. Cinquant’anni di dati sono sufficienti per definire una tendenza al cambiamento del pianeta e gli effetti dell’uomo su di essa? Non potrebbero esserci ciclicità che oggi, semplicemente, siamo in grado di osservare? 

Sono sufficienti, soprattutto per quanto riguarda i livelli atmosferici di questi composti che, essendo puramente sintetici, prima del 1930 non erano presenti nell’atmosfera. Per quanto riguarda il buco dell’ozono, è vero che estensione e durata possono essere influenzati dalla circolazione atmosferica e dalle condizioni climatiche di un determinato anno, ma è altrettanto vero che la prova decisiva della responsabilità del cloro reattivo, come dicevo prima, è stata fornita più di 40 anni fa.

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