È più facile credere che una cosa sia impossibile. Vero, ma non per tutti. Di certo non per i cinque protagonisti della XIX edizione del Premio Nazionale Gentile da Fabriano. Elena Cattaneo, scienziata e senatrice a vita. Francesco Tombesi, giovane astrofisico alla Nasa e ricercatore all’Università del Maryland. Antonio Paolucci, critico, storico dell’arte e direttore dei Musei Vaticani. Fabio Biondi, imprenditore e presidente del Gruppo Diatech leader nella ricerca farmacogenetica. Sandro Trotti, pittore e docente nelle Accademie di Belle Arti della Repubblica Popolare Cinese. Persone straordinarie capaci di trasformare l’impossibilità in ipotesi che, non di rado, avverano. Con loro abbiamo parlato anche di ogm, buchi neri e disobbedienza.
Innovazione culturale e innovazione scientifica procedono di pari passo?
L’innovazione scientifica si basa sulle idee. La scienza non è tecnologia, è creatività. È come l’arte. Bisogna essere visionari per fare scienza, essere capaci di immaginare come sono le cose che nessuno conosce. E per avere questo tipo di fantasia è necessario aprire il pensiero, spaziare il più possibile e avere una preparazione interdisciplinare. Oggi la scienza è un fatto culturale, non tecnico. È la scoperta. È navigare in un deserto senza confini e ciascuno di noi affronta questa navigazione ogni giorno, a prescindere dal lavoro che svolge.
Lei contesta la fondatezza scientifica delle tesi che si oppongono agli ogm. Sostiene la ricerca sulle cellule staminali embrionali e la libertà di indagine. Esiste un perimetro oltre il quale nemmeno la ricerca può andare?
Io non voglio nessun perimetro, io lotto affinché non ce ne siano.
Se la scienza è un fatto culturale, non è possibile imporre limiti all’indagine, alla voglia dell’uomo di conoscere, che è ciò che lo distingue come specie. Quindi sono contro recinti e perimetri nella fase di conoscenza.
Io chiedo che ciascuno sia libero di sapere e scoprire a 360 gradi, e rivendico questo diritto non solo per me, ma anche per il filosofo, il matematico, l’umanista, lo storico. Ciascuno di noi deve fare la propria parte per abbattere mura e steccati.
Chiaro che nella fase successiva, quella in cui le informazioni acquisite diventano un fatto applicabile, tutte le parti che hanno il potere di deliberare devono entrare in gioco. Non chiedo che la scienza sia l’unica a decidere se gli ogm debbano essere utilizzati oppure no, ma pretendo che a quella discussione partecipi anche la scienza.
Penso sia importante che la politica e la società riavviino questa cinghia di trasmissione che le connette alla ricerca.
Oggi possiamo guardare al futuro e dare speranza a persone che da sole non se la possono dare. Rivendico, pertanto, il diritto di studiare per gli altri e lavorare affinché i fatti scientifici possano entrare negli iter legislativi.
Attila è un black hole, sappiamo che ha un nome e che uccide le stelle. Lei lo ha studiato a lungo guadagnando la copertina di Nature. Cosa sappiamo oggi dei buchi neri?
I buchi neri sono un grande mistero. Non sappiamo perché si trovino al centro delle galassie, né come siano finiti lì, non sappiamo come e perché siano diventati così grandi e, in particolare, ignoriamo ancora cosa li sorregga, quale legge fisica muova il loro interno. Noi, attraverso satelliti studiamo buchi neri di altre galassie e cerchiamo di scoprire nuove leggi per capire fenomeni che la fisica attuale non riesce a spiegare.
Al momento, dai buchi neri nessuna informazione può emergere. L’unica riguarda la gravità. Sappiamo che sono infinitamente grandi e che hanno molta massa, ma non abbiamo ben chiaro cosa contengano al loro interno. Studiando quello che succede intorno o molto vicino ad essi, ci auguriamo di riuscire a capire cosa c’è dentro.
In Italia la divulgazione scientifica stenta ad affermarsi. Negli Stati Uniti?
Alla NASA, e negli Stati Uniti più in generale, si fa molta attenzione alla divulgazione scientifica. Gli scienziati, qualsiasi cosa studino, sono sollecitati a discutere col pubblico per far sapere quanto si produce nei laboratori ogni giorno.
La scienza non è per una persona in particolare, ma per tutti e deve perciò rendere accessibili i risultati delle proprie scoperte. Rispondere alle domande e alle curiosità che le persone hanno è un dovere, tanto più che buona parte dei fondi utilizzati per la ricerca sono pubblici. Credo, quindi, sia giusto che gli scienziati escano dai laboratori e spieghino gli esiti delle indagini di cui si occupano in modo che siano comprensibili a tutti.
La NASA, ad esempio, ha al suo interno un team di artisti che si occupa di rappresentare visivamente tutto quanto noi scienziati pensiamo di vedere, ma che realmente non vediamo. Penso ad esempio alla parte interna di un buco nero, o al cuore di una galassia. Investe, inoltre, in animazioni computerizzate, per cui riusciamo a realizzare video che spiegano meglio di un’immagine i risultati delle nostre ricerche. Lavorano con noi numerosi giornalisti scientifici che ci intervistano, così da riassumere e rendere comprensibili al grande pubblico informazioni altrimenti molto complesse.
L’arte è popolare o lo diventa?
Purtroppo alla gente, ai giovani, l’arte interessa poco.
Il destino dell’arte è quindi quello di avere un pubblico sempre più circoscritto?
Si devono educare gli italiani, far capire loro l’arte, gradualmente. Occorre educarli a guardare ciò che ci circonda, la bellezza, a capire perché è importante conservare, a comprendere perché le opere d’arte sono come la tua lingua, come la tua identità.
Il critico è anche divulgatore d’arte?
Il critico d’arte usa gli occhi per guardare e le parole per dire. Ed è quello che ho fatto, gli strumenti che ho usato nel mio lavoro.
Di Carlo Bo, al quale questo premio deve molto, che cosa ricorda?
Che era un grande uomo del ‘900 e un grande intellettuale.
Diatech Pharmacogenetics è l’unica azienda in Italia ad occuparsi di ricerca farmacogenetica. La nuova frontiera della lotta al cancro?
In Diatech siamo convinti che lo studio dei soli geni coinvolti nella neoplasia sia un ottimo risultato, ma non sufficiente per una vera customizzazione della cura. Per fare questo importante passo in più è necessario considerare l’uomo nella sua complessità e quindi coinvolgere per la diagnosi, la prognosi e la terapia tutti quei geni che contribuiscono a caratterizzare la personalità del paziente e che paradossalmente non vengono analizzati nel momento dell’insorgenza della neoplasia.
Per aiutarci con un’immagine, dobbiamo pensare all’uomo come all’affresco “La Scuola di Atene”, di Raffaello: l’uomo è la sintesi e l’espressione di tutti i filosofi. Ogni filosofo rappresenta un pensiero, una visione della vita, una peculiare capacità di relazionarsi, una diversa spiegazione del dolore e quindi una personale e nuova maniera di interpretare la vita.
Quali sono gli obiettivi del progetto Oncosapient?
I concetti di cui ho appena detto sono alla base del nuovo progetto di ricerca al quale stiamo lavorando. A Onco Sapient partecipano tredici entità internazionali tra cui la facoltà di matematica dell’Università di Zurigo e Phisiomics, azienda di Oxford specializzata nello sviluppo di simulatori di tumore, che ha messo a punto un algoritmo, definito tumore virtuale, che simula l’effetto dei farmaci oncologici sulla crescita della massa tumorale.
Da questi presupposti abbiamo avviato la ricerca per sviluppare Onco Sapient, un algoritmo ancora più complesso che ingloberà al proprio interno il tumore virtuale e consentirà di individuare la terapia personalizzata migliore inserendo tutti i dati genetici del paziente e mettendo in relazione la storia del farmaco, simulata grazie al modello di Phisiomics, con quella del paziente.
Onco Sapient quindi fa compiere un importante passo in avanti alla medicina personalizzata la quale, tenendo in considerazione tutte le caratteristiche del paziente e del suo tumore a 360 gradi, sarà in grado di determinare la migliore terapia o combinazione di terapie e il dosaggio migliore, caso per caso, sia in termini di trattamento antitumorale (terapia chimica, biologica, radiante, chirurgica) sia in termini di terapia di supporto e/o palliativa.
Nella sua vita ha raccontato di essere stato disobbediente, almeno una volta. Pensa che nell’arte la disobbedienza sia una virtù?
È vero sono stato disobbediente. Non ho fatto il muratore come mio padre avrebbe voluto. Dopo il diploma al liceo artistico, mi chiese di fargli un quadro. Pensai che avesse finalmente accettato il fatto che seguissi le mie attitudini. Del quadro mi chiese anche le misure, una cosa che mi stupì.
Perché le misure?
Tempo dopo ho scoperto che il quadro serviva a nascondere il contatore della luce. Tornando alla disobbedienza, in passato era punita e un figlio incassava uno schiaffo. Oggi lo schiaffo lo incassa il padre. La disobbedienza che ho conosciuto io era il bisogno di essere in armonia con se stessi. Adesso tutti disobbediscono.
Molti giovani cinesi frequentano le Accademie Italiane, lei invece è andato ad insegnare in Cina. Qual è il risultato di questo scambio?
Tra i tanti aspetti valutabili ce ne sono anche di negativi. A Pechino, per esempio, a fronte di 500mila domande di iscrizione all’Accademia, soltanto mille sono gli ingressi. Molti degli studenti che non riescono a entrare, vengono in Italia senza avere conoscenze artistiche e linguistiche adeguate. Una situazione che presenta non poche difficoltà.
Quanto agli italiani, come me, in Cina, devo dire che faticano a entrare nel Paese e a integrarsi. La popolazione spesso si trincera nelle proprie comunità. Devo dire, tuttavia, che il mio caso è diverso: i cinesi mi hanno accettato perché considerano il mio segno artistico molto orientale. Ciononostante le differenze rimangono. Gli studenti cinesi, abituati alla cultura sovietica, cercano la figura del maestro che impartisce la lezione, che mostra come si fa. Il mio modo di insegnare è diverso: io insegno l’incertezza. Un altro aspetto che ci distingue è il confronto competitivo tra la fotografia e le altre forme artistiche figurative. L’occhio della macchina è per loro una via verso la perfezione e l’arte non può che seguire questo canone rappresentativo.
Foto a cura di Photo Studio Cico Fabriano