Poco più che trentenne, di ruolo nella cattedra di lettere di un liceo. Il profilo, in due battute, di Annalisa Giulietti è un tradimento alla statistica. Ma siamo così sicuri dei numeri e che siano i numeri a dirci che cosa fare del presente e del futuro? Lei, per chi ha scelto la professione di scoraggiare, per chi indirizza a senso unico i percorsi formativi, ha una frase che è quasi un mantra. La dice a se stessa, ai suoi ragazzi e, soprattutto, ci crede veramente.
Annalisa, qual è il tuo lavoro oggi?
Sono insegnante di ruolo, nella cattedra di lettere, al Liceo Savoia di Ancona. Sono entrata con il concorso del 2016, a 28 anni.
Molto presto.
Sì, è stato tutto molto veloce. Dopo la laurea ho fatto il TFA (Tirocinio Formativo Attivo) per l’abilitazione all’insegnamento e poi, subito dopo, il concorso docenti.
In controtendenza.
In realtà ci sono molti giovani che sono entrati con me, tanti di Urbino. Anzi, i commissari del concorso hanno sottolineato questo aspetto. Ci hanno proprio detto che chi viene da Urbino è molto preparato. Sia chiaro che non lo dico (sorride) perché sto facendo un’intervista per il blog di Ateneo!
Qual è il corso di laurea che hai frequentato?
Alla magistrale mi sono laureata in Lettere moderne. Alla triennale in Lettere, curriculum filologico-letterario moderno.
Pensando di diventare…?
La passione per l’insegnamento c’è sempre stata. Certamente nel tempo è cambiata, diciamo maturata. Ho capito che mi sarebbe piaciuto insegnare ai ragazzi più grandi.
All’Università?
Per ora alle superiori. All’interno dell’Università ho curato alcuni seminari durante il mio dottorato: spero proprio non sia un capitolo chiuso.
Di che cosa ti sei occupata?
Ho scritto una tesi di dottorato, che a breve spero di poter pubblicare, sul carteggio tra Carlo Bo e Carlo Betocchi. Il titolo è «Una preziosa testimonianza» tra vita e letteratura, ed è un lavoro che avevo già iniziato alla magistrale. Sono partita dallo studio delle prime 90 lettere, poi ho esteso il mio interesse a tutto il carteggio. Complessivamente sono circa 480 lettere per un arco di tempo che va dal 1934 al 1985. Praticamente, 50 anni di amicizia e letteratura.
Raccontaci.
È stato molto interessante stare su queste carte. Molto lungo, ci sono tantissimi riferimenti letterari e culturali, non è sempre facile interpretare la grafia degli autori, ma di sicuro è affascinante! È il primo studio completo su questo carteggio inedito e qualcosa ho già anticipato nel volume che ho curato su Betocchi, Ciò che occorre è un uomo. Leggere ciò che scrivevano Bo e Betocchi, due grandi della cultura del Novecento, è stato entrare in contatto profondo con due personalità oggi troppo sconosciute rispetto all’importanza che hanno avuto. La rete culturale di quegli anni è incredibile: Bo e Betocchi, e poi Caproni, Luzi, Sereni e tantissimi altri.
Che cosa ti ha sorpreso di queste lettere?
L’amicizia esemplare tra Bo e Betocchi. Non si tratta di “letterati puri”, ma prima di tutto di uomini: la loro non è soltanto una disquisizione sulla letteratura, è – per restare ad un saggio imprescindibile di Bo – letteratura come vita.
Per te è stata la stessa cosa?
Sì, ci ho messo molto di me in questo lavoro: la curiosità e la passione per la ricerca.
Adesso senti la vita aderire ai tuoi desideri?
Mi piace insegnare, sono soddisfatta di ciò che sto facendo, è la mia strada, quella sognata, anche se ho sempre nuovi desideri.
Quando hai capito la tua vocazione?
Non saprei individuare un periodo esatto della mia vita, ho sempre avuto dentro di me l’immagine dell’insegnante. All’Università, sicuramente, in tanti convegni a cui ho partecipato, ho sperimentato il piacere dello scambio di idee incentrato sulla letteratura. Anche durante gli esami ho sempre amato parlare con i professori. Oggi sono dall’altra parte, felice di trasmettere e condividere tutto ciò che ho imparato.
In quanti ti hanno detto “non ce la farai”?
Spesso ho sentito frasi di scoraggiamento, soprattutto all’inizio del percorso, ma sono stata fortunata, per due motivi: la mia famiglia mi ha sempre sostenuta, incitandomi a scegliere la mia strada; ho avuto tanta forza di volontà e determinazione nel seguirla.
C’è qualcosa che ripeti oggi ai tuoi studenti e che è servito in primis a te?
Ho studiato sempre con passione, senza che stare sui libri mi pesasse.
Che cosa ti manca degli anni universitari?
Il gruppo, lo stare insieme, la comunità studentesca. Un aspetto che mi aveva colpito prima di iscrivermi e che oggi riconosco come un momento bellissimo della mia vita.
Consigli utili alle nuove matricole?
Ascoltate voi stessi. Tutti ci dicono l’indirizzo di studi giusto, quello che secondo l’Istat ci darà lavoro? Se non ce la sentiamo, facciamo altro!
Un consiglio utile anche per chi esce dal percorso universitario?
Certo! Abbiate un po’ di pazienza. C’è un momento in cui si ha urgenza di trovare un’occupazione stabile e si pensa che non ci sia nulla da fare. In quel frangente occorre pazientare, i risultati arriveranno. Vivo anche io la negatività che c’è intorno, eppure quando i ragazzi vengono convinti dalla tesi del “non puoi farlo” io ripeto la stessa frase: i risultati arriveranno! Abbiamo delle difficoltà in questo Paese? Sì, nessuno le nega. Ma questo non significa che tutto è perduto. E poi, se posso, spesso si mitizza l’estero dove tutto sarebbe più facile. Non è così.
Ci sono obiettivi nuovi nella tua carriera?
Vorrei non scindere il mio lavoro dalla ricerca. Vorrei che questi due tempi della mia vita dialogassero: per un’insegnante continuare a studiare è fondamentale.