È un pianoforte usato come spioncino da cui guardare se stessi. È una forma di meditazione. È uno specchio alzato in faccia al pubblico. È la propria giovinezza spesa sopra un accordo di tasti. È la consapevolezza che quell’armonia, per quanto ricercata, non è che un tramite. È la musica di Ottavia Maria Maceratini, che si sta coniugando con lo studio della psicologia e tanto altro. Per capire quanto altro, basterà ricordare che è in uscita il film nel quale interpreta un ruolo da co-protagonista.

(In fondo all’intervista una breve biografia e una performance musicale di Ottavia, alle prese con Le campane di Ginevra di Franz Liszt).

La tua carriera da concertista ti porta a vivere tra Monaco di Baviera e Montefano, in provincia di Macerata. Perché iscriversi di nuovo all’Università?

Per due motivi fondamentali: amo imparare, conoscere, sono mossa da sempre da un grande desiderio di ricerca; secondo motivo: al centro dei miei interessi c’è l’essere umano. La musica, l’arte, non possono prescindere dall’autoconoscenza. I percorsi artistici sono, in potenza, strumenti di investigazione. L’arte non è un automatismo, ma un modo di affacciarsi alla conoscenza. Certamente può essere usata come stampella, come compensazione e quindi avviare all’alienazione nel “mondo artistico”, oppure condurre a una maturazione sempre continua della persona.

Hai già risposto alla domanda successiva, sul perchè hai scelto il corso di Scienze e tecniche psicologiche. Vero è che ritentare la strada degli esami, rimettersi alla verifica, se si è già affermati, non è banale.

Dipende dallo scopo che si persegue. Se ci si identifica nell’immagine del concertista, certe situazioni (test, esami eccetera) possono mettere in crisi. Ma questo atteggiamento è molto doloroso quando non è più funzionale alla crescita della persona. Per me ho deciso di abbandonare l’identificazione disfunzionale. Sono una concertista, nessun dubbio, ma prima ancora sono un essere umano, questa è anche la mia priorità.

Anno di corso?

Secondo.

Che cosa significa nella tua carriera mantenere questa priorità?

Non mi sono mai legata a un manager che, di sicuro, darebbe una mano al mio business. Non l’ho fatto per non imbrigliarmi in una struttura ahimè molto rigida, all’interno della quale diventa difficile portare avanti una vera investigazione. Distinguo tra mondo dell’arte e mondo dello spettacolo, che spesso vengono confusi. Lo spettacolo risponde a logiche di mercato, l’arte no.

No nella misura in cui resiste a fama e soldi come unici scopi?

La tentazione ha la sua importanza, ma non ha la stessa forza della domanda che mi guida, quindi non si tratta di resistenza. Quando scopri qualcosa di più buono non lo lasci. A 12 anni facevo già molti concerti, concorsi… Quel che si prova sul palco della Filarmonica di Berlino o della Tonhalle di Zurigo è qualcosa di molto intenso. Eppure ho capito con il tempo che la mia vera soddisfazione è lungo il percorso. La qualità della mia vita la ricerco nella relazione con me stessa e con gli altri. Paradossalmente, in certi ambienti culturalmente molto ricchi, questa qualità è povera.

 

Tu non parli mai di talento, eppure il tuo è stato scoperto molto presto.

Non ne parlo perché dal mio punto di vista il talento ha un altro nome, è un richiamo, un forte interesse. Non è una questione di pudore, il talento per me è una specie di energia, un flusso che indirizza la mia attenzione. Riguardo alla mia scoperta, chi mi era intorno, a partire dai miei genitori, ha avuto il coraggio di lasciarmi spazio, senza mai fare opposizione, incoraggiandomi. Sono grata di questo ed è stato fondamentale per farcela. L’esame di ammissione all’Università della musica e dello spettacolo di Monaco di Baviera, un’istituzione molto diversa dal nostro Conservatorio, l’ho sostenuto in contemporanea alla maturità scientifica. È stata dura… i concerti… lo studio…

Finito i liceo, superato il test a Monaco, ti sei trasferita. Oggi la Germania è diventata per te una seconda casa.

Sì, è vero, mi sono trasferita in Germania, ma la prima cultura che ho incontrato è stata quella russa, grazie alla pianista Elisso Wirssaladze, di cui sono stata allieva e grazie ai compagni di corso armeni, russi e uzbeki. La cultura russa, quindi, mi ha in qualche modo permeata, ma è con le filosofie orientali che ho avuto sempre un grande affinità.

Le arti marziali hanno a che fare con quest’ultima predilezione?

Sono cintura nera, 4° dan, di Bujinkan, una disciplina che nasce nel campo di battaglia e che da un certo momento in poi della storia è diventata una pedagogia. È focalizzata sulla naturalezza del movimento, è un modo di vivere il corpo che cambia anche la percezione dell’altro. Si parte dall’ordinario eliminando il tarlo che ci divora: la continua ricerca di straordinarietà. La prova più importante si chiama Sakki test. Lo si supera se si riesce a percepire che la spada di legno del maestro sta per essere tratta, pur avendo gli occhi chiusi. L’attenzione è tutta nell’ascolto, non c’è lotta nella prova. A tanti, anche dell’ambiente musicale, pentagramma e arti marziali sembrano due mondi opposti e inconciliabili, ma non c’è niente di dissonante. Niels Bohr, il fisico, diceva che ci sono verità semplici, il cui opposto è falso, e verità profonde, il cui opposto è un’altra verità.

Chiarita la relazione tra arti marziali e musica, quella con la psicologia… esiste?

Psicologo e musicista, di nuovo, hanno in comune l’ascolto, che ha tantissime dimensioni. Si inizia dall’ascolto fisico, che ha molti parametri di riferimento, ma non ci si ferma alla materialità del suono. Insegnando pianoforte sento se dietro alle note c’è tensione o rilassamento; si può ascoltare il pensiero di chi le ha prodotte e così via. Anche lo psicologo ha questo dono dell’ascolto e si impegna ad approfondirlo.

Foto di Alfredo Tabocchini

Intervistata da una tv locale hai detto di non avere hobbies.

Non ho hobbies perché con quel che faccio non inganno il tempo. Hobby è una parola che sembra descrivere la scarsa dedizione a qualcosa, non mi piace.

È appena uscito un film che ti vede impegnata nella recitazione. Si chiama Non amarmi, regia di Marco Cercaci. Ha debuttato al Noir Film Festival di Milano. Fare l’attrice è un altro non-hobby?

Quando ero all’Università, in Germania, sono stata selezionata per essere parte del progetto Life music now, nato da un’idea del violinista Yehudi Menuhin che, per far conoscere la musica classica a tutti, soprattutto ha chi non ne ha la possibilità, ha pensato di organizzare concerti in ospizi, ospedali, carceri… Ho suonato ovunque. Poi un regista di Berlino, Inigo Westmeier, ha deciso di trasferire la storia in un docufilm. Sono stata scelta per una parte e abbiamo iniziato a girare. Alla fine il progetto non si è concluso, ma è sopraggiunto un cortometraggio, Chloè, dello stesso regista. Sono stata invitata a interpretare il ruolo della protagonista. Marco Cercaci, appassionato di musica, storia e cinema, l’ha visto e mi ha chiamata come co-protagonista in Non amarmi. Interpreto Albina. Recitare è un’espressione artistica che ha molto in comune con l’arte interpretativa musicale. Inoltre, entrare e uscire da un personaggio aiuta a conoscere meglio certi meccanismi di identificazione e disidentificazione, a padroneggiare uno strumento che il più delle volte subiamo, oppure non sappiamo dosare nel vivere quotidiano. Modulare l’attenzione, distaccarsi dalle “storie che ci vengono raccontate e che ci raccontiamo”, quando opportuno, diventano skills importantissime nella vita. È come saper usare obiettivo e zoom di una macchina fotografica di fronte alla realtà che vogliamo fissare e cogliere.

È una storia di guerra, giusto?

Non posso spoilerare. Posso dire però che è girato nelle Marche e che ricostruisce il bombardamento del porto di Ancona. Siamo nel periodo del secondo conflitto mondiale. È un storia sulla difficoltà di vedere la verità nella sua totalità. I personaggi sono confusi dalle loro speranze o da altre distorsioni percettive…

C’è un compositore col quale hai una particolare consonanza?

Sicuramente Schumann. La mia insegnante, Elisso Wirssaladze, è una delle massime interpreti. Prima lo ascoltavo, eseguito da lei l’ho sentito, per la prima volta. Una delle qualità che amo di più nelle sue composizioni, è quella della innigkeit, una parola molto difficile da rendere sia in italiano sia in inglese: è l’invito a un sentire più intimo, lontano dal sentimentalismo, è “etwas innig Wirkendes”, ossia qualcosa che lavora dentro, che “ammorbidisce le nostre spigolosità”, che “scioglie ciò che è indurito o irrigidito in noi”, che in qualche modo scalda il nostro cuore trasformandolo. Quando ho ascoltato per la prima volta Elisso suonare Schumann in concerto, è stata un’esperienza sconvolgente. Mi sono accorta poi di essere rimasta contratta, sospesa, protesa in avanti per tutto il tempo sulla mia poltrona. La musica mi aveva investita, come un treno.

È ciò che cerchi di ottenere in chi ti ascolta quando suoni?

No, non forzo l’esperienza. Questo accade soltanto quando fai spazio. Per parte mia seguo quanto mi è stato insegnato. Elisso Wirssaladze a lezione mi ripeteva: “Fai in modo che sia fresco, che nasca ora, non cercare di suonare per dimostrare qualcosa o per far qualcosa di bello, di originale, cerca qualcosa che sia vero e autentico ora, in questo momento”. Ci si può perdere nella ricerca puramente estetica del suono, o in qualsiasi forma di “manierismo”, nel voler essere “ricercati” a tutti i costi, dimenticando completamente ciò che è essenziale.

Quale è il tuo rapporto con l’abilità tecnica, con il virtuosismo?

In Italia sono stata allieva di un grandissimo virtuoso, Lorenzo Di Bella, vincitore del prestigioso Premio Horowitz, che mi ha trasmesso quest’arte, indispensabile per esprimere le sfumature. L’abilità non è mai stata un problema per me, la considero una cosa naturale. Per l’Università che ho fatto, a Monaco, era un prerequisito. Il virtuosismo fa certo parte dello sviluppo di competenza tecnica, in questo caso di un pianista. Fino a un certo momento però, oltre il quale, continuando soltanto a preoccuparsi di tecnica, si procede esclusivamente in senso orizzontale. Diventando sempre più efficienti – tecnicamente parlando – non necessariamente si acquisisce una maggiore profondità del sentire e dell’esprimere. È spostandosi su altre questioni che si accede a un campo molto più ampio, nel quale è implicata l’esplorazione. La musica è la sintesi di tante dimensioni: fisico-muscolare, emotiva, intellettuale… devi decifrare le note, collocare il pezzo nel contesto musicale e storico, allenare la muscolatura, trovare la coordinazione giusta, dare spessore e colore al suono, ma poi ci vuole anche un momento di “arresa”, di cessione del controllo. Si cerca di agevolare l’instaurarsi di uno stato in cui la sensazione non sia che è “il piccolo io” a suonare, ma che “qualcosa ci suoni”, che qualcosa di più grande e vasto ci utilizzi come strumento. Una sensazione simile a quella descritta da alcuni maestri zen quando parlano dell’arte dell’arco e di tirare le frecce. Fermarsi alla perfezione esecutiva significa fermarsi ai primi piani. Va anche bene. Tutto dipende da ciò si cerca davvero.

Per te il pianoforte, a cui hai dedicato gran parte del tuo tempo è, quindi, semplicemente una demarcazione da eccedere, una circostanza espressiva?

Tante volte mi sono chiesta quali cose mi porterei dietro se smettessi di suonare, quali principi da applicare altrove. Diciamo che resterebbe in me la comprensione dell’importanza dello spazio e del silenzio dal quale le note vengono prodotte, sia in senso letterale sia in senso più metaforico. Un pianista non ha la capacità di modificare il suono una volta che ha toccato il tasto. Perciò, quando si vuole imprimere una certa qualità al suono da produrre, si deve lavorare con il silenzio e lo spazio dal quale il suono scaturirà. Quanto più ascolto il silenzio, tanto più “odo” il suono prima che si manifesti acusticamente, tanto più ricco sarà il suono prodotto. Credo che la consapevolezza e l’esperienza del silenzio, che danno vita ai suoni, siano elementi vivificanti anche in merito al nostro rapporto con il pensiero: se c’è un horror vacui, il pensiero combatterà il silenzio, diventerà angusto e compulsivo. Se invece assaporerò lo spazio tra i pensieri, allora anche la qualità di questi muterà. Se la conoscenza musicale non conduce ad ampliamento del cuore, dal mio punto di vista, sarà servita a poco. Nella vita si traduce nella coscienza di partecipare a qualcosa di più grande, che include gli altri e non è fatto solo di un sé arroccato su qualche torre d’avorio.

Hai inciso tre dischi, One cut, Untitled e Wanderer Inside. Soprattutto nel primo utilizzi stili e registri di epoche differenti. Noi sei insomma una purista a tutti i costi…

Amando la musica sono aperta a qualsiasi tipo di stile. Ultimamente ho avuto occasione di lavorare con musicisti siriani. Ho trovato una tradizione e una pedagogia musicale molto lontane dalla nostra. Non esistono, per esempio, manuali di riferimento, prevale la forma orale, da cuore a cuore. Sembra un modo di dire metaforico, ma mi è stato spiegato che è letterale, indica una sintonia che non prevede la concettualizzazione. Ci sono brani o ritmi molto particolari che, se concettualizzati, non li si esegue nel modo giusto. Tornando agli stili, mi è capitato di combinare la musica classica e quella orientale. Soprattutto negli ultimi due anni e in particolare al Festival di Bayreuth, in un concerto che metteva insieme Rachmaninov e Chopin con l’arte dell’improvvisazione orientale.

Nella tua biografia c’è anche un libro, Parlami di te anima mia.

Dopo un ritiro meditativo alle Canarie, in tre giorni ho buttato giù dei pensieri che sono diventati, non intenzionalmente, ma per iniziativa di una persona amica, un piccolo libro.

Come vivi l’Università, seppur tra la parentesi pandemia?

A Urbino mi trovo molto bene. Con alcuni insegnanti sono rimasta in contatto anche dopo gli esami: chi trasmette una passione, trasmette una luce e questo lo considero prezioso. Va ben oltre la propria disciplina. Naturalmente preferirei l’interazione dal vivo, ma devo ammettere che la DAD mi ha permesso di seguire molte più lezioni di quanto mi sarebbe stato possibile in presenza. L’Università per me è un’occasione di gioia. Certo, mi richiede impegno e motivazione, ma non c’è stress.

Dove vorresti che ti conducesse il tuo nuovo percorso?

Mi piacerebbe estendere la mia ricerca alle potenzialità dell’essere umano. Seguo molto le ricerche di alcuni neuroscienziati e filosofi americani che investigano il costrutto di “saggezza” e cercano di mettere a fuoco uno spettro più generale, interculturale, delle linee evolutive umane, estendendo l’idea degli stadi di sviluppo anche e oltre l’età adulta e prendendo in considerazione alcune fasi documentate e descritte dalle grandi discipline contemplative e meditative di tutto il mondo. Più in generale, desidero imparare ad amare, poiché la mia comprensione delle cose non potrà che restare limitata. Se riuscirò a mantenere vivo e alimentare in me e negli altri un profondo senso di stupore e di meraviglia per “ciò che c’è”, allora sentirò di aver svolto il mio compito. Einstein diceva che il sentimento del sacro è il più forte incitamento alla ricerca scientifica.

Ottavia Maria Maceratini 

Nata a Recanati, ha iniziato a studiare pianoforte all’età di 5 anni, con il Maestro Ermanno Beccacece, alla Civica Scuola di Musica “Beniamino Gigli”. Tra 1997 e 2005 è stata allieva di Lorenzo Di Bella. Dal 2005 è ammessa ai corsi della prestigiosa Università della musica e dello spettacolo di Monaco di Baviera. Si perfeziona con la pianista russa Elisso Wirssaladze. Ha vinto numerosi premi, 28 competizioni italiane, ha tenuto concerti a Roma, Milano, Firenze, Monaco, Berlino, Verona, Tbilisi, calcando il palco di “luoghi culto”, come quello della Philharmonie di Berlino e della Tonhalle di Zurigo. Ha lavorato con orchestre prestigiose come la Novosibirsk Symphony Orchestra, la Deutsches Symphonie Orchester e altre. Ha aperto festival internazionali e si è esibita come solista. Nel 2013 ha suonato in occasione dell’incontro tra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il suo omologo tedesco, Joachim Gauck. Ha inciso tre cd e scritto un libro. È cintura nera, 4° dan, di Bujinkan. Ha scritto di lei il grande violinista Gidon Kremer: “Ottavia ha una personalità musicale insolita e interessante. È alla continua ricerca della propria voce e va sfidando i suoi ascoltatori con letture insolite. Laddove molti giovani musicisti sono preoccupati di essere glamour, è molto rigenerante conoscere qualcuno che privilegi l’approccio alla musica all’interno delle partiture”.

 

Immagine in evidenza: Maximilian Rossner

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