Un’intera parete letteralmente rivestita di badge, memoria tangibile di 25 anni di ricerca e di tantissimi convegni e conferenze sulla cromatografia e la spettrometria di massa tenuti in tutto il mondo. Per questa sua attività Achille Cappiello è entrato a far parte della prestigiosa The Analytical Scientist Power List 2019, la lista formata da una giuria di esperti che ogni anno seleziona i 100 scienziati più influenti nel campo delle scienze analitiche, vale a dire chimica, biologia, fisica e medicina.
“It’s easy to nominate Cappiello for this award due to his extensive publication history,
and contributions to the fields of LC, MS and LC EIMS.”
Una motivazione che sintetizza l’apprezzamento per le tante pubblicazioni prodotte in questi anni.
Professore c’è una dedica da fare?
Sì, questo riconoscimento va a tutto il mio gruppo di ricerca. Mi sento un po’ come un direttore d’orchestra.
Come ha saputo di essere nella lista dei 100 big della scienza analitica?
Capita spesso che lo si venga a sapere dai giornali. Questa volta l’editor della rivista mi ha inviato una mail con la motivazione.
La Power List è una sorta di premio alla carriera?
È un premio alla persona per il contributo portato allo sviluppo delle scienze analitiche.
In particolare lei si occupa di chimica analitica.
Esattamente. La chimica analitica ha lo scopo di ampliare la conoscenza di ciò che ci circonda: dell’aria, dell’acqua, dello spazio, della terra. L’indagine si estende ovunque. Per esempio in ambito forense o in contesti di conflitto armato. Attraverso questo strumento si traggono informazioni da reperti o campioni di materia.
Come è iniziato tutto?
Ero studente alla Sapienza di Roma, scelsi come relatore Fabrizio Bruner che, subito dopo la mia laurea, ottenne una cattedra all’Università di Urbino e mi chiese di seguirlo. Arrivai qui, ci rimasi per due anni. Dopo una parentesi di altri due negli Stati Uniti tornai e diventai ricercatore. Bruner creò il gruppo di ricerca urbinate. Eravamo pochissimi e si partiva da zero. Infine, nel 1996, quando il professore ci lasciò, raccolsi la sua eredità.
Abbiamo parlato di chimica analitica. All’interno di questa branca qual è, nello specifico, la sua attività di ricerca?
Il mio gruppo ha messo a punto una nuova tecnologia per la spettrometria di massa. Dal nostro laboratorio è nato uno strumento che è frutto di anni di intenso lavoro e importanti collaborazioni internazionali. Cito soltanto quella con l’americana Agilent Technologies. La nostra tecnica è molto apprezzata perché è affidabile e riduce il tempo di analisi rispetto alle procedure convenzionali. Specialmente in ambiti come la chimica forense, la rapidità di analisi riduce la probabilità di errore.
Quali sono le applicazioni?
Viene utilizzata nello studio dei cambiamenti climatici da un team di climatologi con cui collaboriamo insieme a tanti altri Atenei e che, di recente, ha vinto anche un PRIN. Lo spettrometro, a partire da un campione, da una carota di ghiaccio, ci aiuta a capire le modificazioni della composizione chimica, dunque la storia dell’atmosfera. Dall’Artico, e dalle Isole Svalbard in particolare, ci arrivano le carote di ghiaccio che poi vengono sciolte e analizzate. A questo punto interviene la nostra semplificazione: si tratta di una membrana attraverso cui passa il solvente e che, una volta immersa nel campione, invia tutte le informazioni raccolte allo spettrometro. In questo modo riusciamo a dare un nome alle sostanze, a capire la natura delle molecole, misurandone la quantità anche a distanza di migliaia di anni. Abbiamo bisogno di uno strumento molto sensibile: per ogni 10¹² parti di ghiaccio abbiamo una particella di sostanza.
Come siete arrivati a questa tecnologia?
Ci sono voluti – come dicevo – anni di lavoro e un soggiorno in Canada (dove esiste un esemplare identico allo spettrometro di Urbino) che ci è servito a perfezionare lo strumento. Ma l’origine vera di tutto è nella fantasia e nella creatività, oltreché nella capacità di inserirsi nel contesto internazionale.
Esistono altre applicazioni?
Si sta lavorando molto sull’analisi delle droghe cosiddette da stupro.
Si parla molto di ricerca in caso di successo. Ma che cosa c’è nel sottobosco?
Tanti insuccessi. Tuttavia proprio i risultati negativi ci aiutano a trovare la strada giusta. 9 esperimenti su 10 normalmente falliscono, eppure questo non è un problema. Ogni investitore, pubblico o privato, sa bene che la ricerca di punta è una mappa in costruzione, non ci sono coordinate. Quando però si riesce a vedere una direzione si procede, ecco l’innovazione. Bisogna essere consapevoli del fatto che la buona ricerca è di per sé spreco, di denaro e materiali. Costi che si ammortizzano solo al raggiungimento dell’obiettivo finale. I grossi investimenti servono in effetti a sostenere i fallimenti. D’altronde, se ci pensiamo, grandi imprese come lo sbarco sulla luna hanno avuto bisogno di grandi investimenti per arrivare al successo finale.
Questo per il suo gruppo è il momento della popolarità.
Sono alcuni anni che il nostro lavoro ottiene riconoscimenti dalla comunità scientifica internazionale. Nel 2016 abbiamo vinto il The Analytical Scientist Innovation Award. Nel 2018 Veronica Termopoli, nostra collaboratrice, si è guadagnata il Premio Canada-Italia per l’Innovazione.
Qual è il punto di contatto fra i suoi inizi con il professor Bruner e l’oggi?
Bruner mi ha insegnato come si fa ricerca e l’importanza della cura dei contatti internazionali. Un maestro e una scuola sono elementi imprescindibili di una carriera. Nel mondo della scienza è necessario avere un atteggiamento di apertura verso l’esterno e questo lo si impara. Fare ricerca, contrariamente allo stereotipo dello scienziato isolato in un laboratorio, significa spaziare nella letteratura specializzata, partecipare a convegni e conferenze, confrontarsi con i colleghi e, inoltre, avere una buona dose di ostinazione ed entusiasmo.
Il laboratorio è comunque una parte molto importante. Possiamo dire prevalente?
Naturalmente. So che c’è un dibattito aperto: io sto dalla parte di coloro che reputano la ricerca l’antefatto della didattica. Un docente universitario deve essere prima di tutto un bravo ricercatore, deve stare nella zona di frontiera del sapere. Poi deve anche avere la capacità di trasferire le proprie conoscenze ad altri. Il mio programma di insegnamento si fonda su ciò che faccio in laboratorio. Non è possibile addestrare futuri piloti d’aereo senza avere fatto mai nemmeno un’ora di volo.
Che cosa si augura?
Di riuscire a lasciare una scuola, una traccia a chi verrà dopo di me.