Los Angeles, ore 10. Le 19 in Italia. Raffaella Camera, ex studentessa Uniurb, si fa trovare puntuale al telefono. Deve parlarci di tecnologia, realtà aumentata, virtuale, marketing e di un recentissimo red carpet americano.
L’azienda per cui lavori è stata premiata da poco con questa motivazione: Best Use of VR for Merchandising and/or Retail: VR Merchandising. Di cosa si tratta?
Dei Lumiere Awards. Sono premi internazionali assegnati per la creazione di immersive storytelling, visual technology, 3d real time rendering. L’11^ edizione ha avuto 23 vincitori, tra cui Disney, per il migliore utilizzo di High Dynamic Range – Animato, in Frozen II, Paramount, Warner Bros, e aziende più commerciali come appunto Accenture. I Lumiere sono il red carpet di un modo di raccontare storie, di connettersi con i consumatori in maniera immersiva.
Accenture come integra la realtà virtuale?
Il progetto che ha vinto i Lumiere utilizza una piattaforma VR mobile con embedded eye-tracking. È stata una collaborazione con Qualcomm e Accenture per Kellogg’s. Abbiamo ricostruito un supermercato virtuale nel quale i nostri tester hanno fatto un’esperienza immersiva. Grazie al Qualcomm reference VR headset è stato inoltre possibile ricavare dati preziosissimi, che altrimenti non potremmo avere: ad esempio per quanto tempo l’attenzione del “consumatore” si è soffermata sui prodotti, quanti e quali di questi sono finiti poi nel carrello.
Quali risultati avete ottenuto?
Un incremento delle vendite del 18% durante testing. Tra l’altro riducendo tempi e costi, perché la tecnologia VR permette di modificare rapidamente il posizionamento dei prodotti nello scaffale e, dunque, strategia. Per le aziende e i retailers tutto ciò è molto importante, è un modo innovativo di connettersi con i consumatori, una nuova finestra di dialogo. Accenture Interactive, il gruppo per il quale lavoro conta 20 mila dipendenti, parte dei 510 mila dipendenti di Accenture, la più grande digital agency del mondo secondo Ad Age, una delle più autorevoli riviste che si occupano di pubblicità.
La realtà è una sola, le realtà tecnologiche no. È corretto?
Sì, esistono 3 tipi di realtà possibili grazie alla tecnologia: VR (Realtà Virtuale); AR (Realtà Aumentata); MR (Mixed Reality).
Che ruolo hai in Accenture?
Sono Managing Director e Global Head of Innovation & Strategy. Vado a caccia di tecnologie emergenti, in grado di rendere competitivi i nostri clienti nell’era post-digitale. Il mio compito è quello di arrivare sull’innovazione prima che se ne accorga il mercato.
È come stare in testa a una locomotiva in corsa. Che cosa si vede dalla cabina?
Certamente il digitale trasformerà la nostra esperienza. L’AR, per fare un esempio, consentirà di seguire le partite di calcio ricevendo in tempo reale tutte le statistiche sulla performance del nostro giocatore preferito. L’NBA ha già testato soluzioni simili. In Accenture diciamo che il post-digitale sarà un’era all’insegna della realtà individualizzata, quindi già oltre la personalizzazione. Parlando di device e hardware sarà bene tenere presenti gli occhiali smart di Apple ed altri.
L’e-commerce sembrava avviarci inesorabilmente all’acquisto online, a distanza. Adesso invece si parla, di nuovo, di modalità di vendita che coinvolgono il corpo.
Nel marketing già da tempo stiamo andando verso l’esperienza immersiva del consumatore, che comprende i sensi e la possibilità di manipolare i prodotti.
Come inizia la tua carriera?
Ho fatto il liceo scientifico, poi mi sono diplomata in pianoforte al Conservatorio Rossini di Pesaro.
E la carriera universitaria?
Ho studiato Scienze Politiche a Urbino, corso di laurea magistrale.
Il tuo background come ti ha portato negli Stati Uniti?
Il primo motivo del mio trasferimento è stato un master con borsa di studio in pianoforte. Poi ho frequentato un Master in Business Administration (MBA), sempre con borsa di studio. Dopo questo periodo di formazione sono rimasta a lavorare nel settore dell’innovazione. Durante i primi anni mi sono occupata di pubblicità tradizionale, digitale e interattiva. Da tre sono in Accenture, dove applico la mia formazione umanistica alla tecnologia emergente. Altro motivo, più personale, i miei due fratelli. Entrambi, come me, sono diplomati in Conservatorio e si sono laureati all’Università di Urbino. Entrambi lavorano negli States, uno come docente di economia, l’altro nel settore biotech.
Ti occupi di tecnologia, dove dici di “portare la tua formazione umanistica”. Non si crea un cortocircuito?
No, questo è un passaggio importante da evidenziare. Non dobbiamo guardare al mondo tecnologico come a una riserva per soli programmatori e informatici. Sarebbe un errore e in Italia dobbiamo fare un passo in avanti. La tecnologia ed il suo utilizzo sconfinano nel marketing, nel volontariato, nella ricerca, nell’arte… Immaginare possibili applicazioni richiede una forma mentis non settoriale. Questo approccio può essere benissimo figlio di una formazione umanistica. La “visione a tunnel” non porta assolutamente bene. Al contrario è necessario saper pensare soluzioni che poggiano su conoscenze e competenze pluridisciplinari.
Tra l’altro c’è anche il tema, non secondario, dell’etica delle nuove tecnologie, affine a chi ha una formazione umanistico-filosofica.
È un tema molto importante in azienda. I governi, per varie ragioni, arrivano tardi sull’innovazione tecnologica. Tocca quindi alle società darsi un codice etico e avere senso di responsabilità. L’etica è stata anche materia del mio MBA.
La cosa che ami di più del tuo lavoro?
La parte creativa. È creativa la ricerca di nuove soluzioni tecnologiche per i nostri clienti: si parte da un appunto, da un dettaglio registrato per raggiungere l’obiettivo, creare un’esperienza o una soluzione in spatial computing. È creativo stabilire un contatto tra mondi apparentemente paralleli. Ed è creativo il lavoro di presentazione delle soluzioni ipotizzate ai partners. Spesso questo richiede di costruire storie interessanti da leggere, vedere e ascoltare.
L’aspetto più difficile?
I continui cambiamenti imposti dal mercato sono certamente uno stimolo alla curiosità, ma anche un fattore di stress mentale.
Tu vivi a Los Angeles. Che rapporto c’è tra la città e la tua vita professionale?
Los Angeles è un infinito generatore di spunti. Qui trovi moltissime culture differenti ed è un luogo frequentato da luminari della tecnologia, del business e dell’arte. È una città che, se osservata bene, sa indicarti la strada della novità.
Due concetti indispensabili per sopravvivere ad una professione come la tua?
Coraggio e incoscienza. Il primo serve a non ritrarsi, il secondo serve al primo. Quando ho avuto la prima borsa di studio potevo rinunciare, potevo darla vinta alla paura di essere catapultata in una città che non conoscevo. Il coraggio è stato fondamentale.
L’incoscienza?
A volte non avere a disposizione tutte le informazioni è molto meglio.