Università di Urbino e Comune di Sant’Angelo in Vado hanno cofinanziato un assegno di ricerca con l’obiettivo di individuare politiche di sviluppo territoriale post-crisi. Lo studio rientra tra le attività del Dipartimento di Economia, Società e Politica e ha come responsabile scientifico il professor Fabio Musso, docente di Economia e gestione delle imprese internazionali e prorettore alla Terza Missione. Con Alessandro Dragoni, che ha raccolto, elaborato i dati e redatto il testo abbiamo tradotto centinaia di pagine in intervista.

Alessandro, perché questa ricerca?

Dal 2007 ad oggi il distretto del tessile-abbigliamento, che negli anni passati era stato l’asse portante dell’economia locale, ha attraversato le difficoltà derivanti dal mutamento del contesto competitivo e dalla delocalizzazione dei processi produttivi. Dopo le prime avvisaglie del 2000, la crisi economica del 2007 ha causato il dissolvimento di un intero comparto produttivo noto alle cronache del Sistema Moda Italia come la Valle del Jeans. Le aziende che oggi seguitano ad operare nel settore hanno attuato importanti processi di ristrutturazione o hanno rivisto il loro business. Il lavoro che abbiamo svolto indaga possibili exit-strategy da questa situazione per la ripresa economica.

Quale metodologia di ricerca avete scelto?

Osservazione partecipata.

Vale a dire ricerca sul campo?

Sì, ho vissuto per un anno intero a Sant’Angelo in Vado. Parlando con i residenti, condividendo il loro stesso spazio sociale, è stato possibile capire le reali esigenze della comunità. Interviste e colloqui sono state alla base di una strategia di sviluppo nata dal basso, bottom up.

Avete usato dati per completare il lavoro di analisi?

Sì, e provengono da due fonti. Dalla ricerca documentaria: abbiamo scandagliato le banche dati della Camere di Commercio di Pesaro e Urbino, dell’Istat, della Banca d’Italia, dell’Ufficio anagrafe comunale, del Centro per l‘Impiego di Urbino e dell’Osservatorio del Turismo della Regione Marche eccetera eccetera. Numeri che sono stati utili a ricavare indicatori statistici di tipo demografico, sociologico ed economico.
Da fonti orali: abbiamo incontrato la cittadinanza, gli stakeholder, le associazioni di categoria, gli amministratori, gli imprenditori, gli artigiani… Le interviste con quesiti a risposta aperta ci hanno permesso di penetrare meglio il tessuto sociale ed economico e di elaborare grafici che diano senso ai numeri. Il tutto, naturalmente, rappresenta il presupposto per individuare politiche di sviluppo concrete.

“Il progetto – commenta il professor Fabio Musso – è emblematico dell’apertura verso l’esterno del nostro Ateneo, apertura che va oltre la didattica universitaria e la ricerca di base effettuata nei laboratori e nelle biblioteche. Attraverso le attività di Terza Missione l’Università di Urbino mette a disposizione le proprie conoscenze più avanzate per favorire la crescita non solo economica ma anche culturale, sociale e civica del territorio. Il caso di Sant’Angelo in Vado dimostra che il rapporto può essere sviluppato attraverso un approccio personalizzato: pensare che un nostro ricercatore si è trasferito per un anno nell’entroterra vadese per comprenderne a fondo le problematiche, pone il nostro metodo lontano anni luce dalle classiche soluzioni preconfezionate che, non di rado, caratterizzano le politiche di sviluppo locale. Qualche anno fa uno spot pubblicitario sottolineava il legame tra un istituto di credito e il territorio con il claim “la mia banca è differente”. Credo che gli amministratori e il mondo imprenditoriale della nostra provincia possano dire la stessa cosa in riferimento alla Carlo Bo: ‘la mia Università è differente'”.

Qual è il risultato dell’analisi di contesto?

Dal confronto numerico fra provincia e regione è emersa la necessità di contrastare il calo demografico dei piccoli centri come Sant’Angelo in Vado, che rappresentano circa il 70% dei comuni italiani. Questo dato impone un’attenta riflessione, perché il rilancio dell’intero Sistema Paese non può prescindere dallo sviluppo economico delle realtà locali.

La vera domanda è “come”?

Il ritorno ad una monoeconomia del tessile-abbigliamento, un settore labour-intensive, non è verosimile. Dunque, dopo la raccolta dei dati e l’analisi siamo approdati alla fase delle ipotesi di sviluppo, mettendo in campo due tipologie di intervento: settoriale e sistemico. La prima tipologia prevede azioni mirate, di settore appunto, che riguardano l’artigianato, l’industria, il commercio, l’agricoltura e il turismo. La seconda tipologia è integrata ed è finalizzata alla valorizzazione del capitale sociale, culturale ed ambientale.

A fronte di una crisi produttiva che ha investito il Paese, come è possibile trovare vie d’uscita peculiari?

Il punto è proprio questo: uscire dall’omogeneizzazione e dalla standardizzazione dell’economia globalizzata richiede di valorizzare le caratteristiche di un territorio. Se la delocalizzazione ha colpito la manifattura, occorre trovare che cosa possa disinnescarla. Naturalmente non esiste una formula codificata ma un modo c’è e sta nel saper individuare il genius loci, la vocazione di quel territorio. Nel nostro caso di studio la vocazione è turistica, ma per dare impulso al terzo settore è necessario attivare molte altre leve economiche. Il turismo non è altro dal commercio, dall’artigianato, dalla produzione agroalimentare. C’è una nota interazione tra i vari settori economici che interagisco e si influenzano reciprocamente.

Per Sant’Angelo in Vado e il Montefeltro quali sono le ipotesi di sviluppo emerse?

Lo studio evidenzia le opportunità che deriverebbero dal distretto industriale del tartufo. Ecco come disinnescare la delocalizzazione, attraverso la costruzione di una filiera che dalla produzione passi alla lavorazione, alla trasformazione e, quindi, alla commercializzazione. Il tartufo, coltivato o raccolto in loco, rappresenta un motore di sviluppo molto più potente di quanto non lo sia già, soprattutto se si considerano i prodotti derivati.

Alessandro Dragoni, ricercatore dell’Università di Urbino

Qual è l’ossatura del distretto industriale ipotizzata?

Il Centro Sperimentale di Sant’Angelo in Vado, nato nel 1981, potrebbe essere il perno dell’azione strategica di filiera. Si deve poi considerare che la coltivazione del tartufo, compresa quella diffusa, in questi luoghi è presente in ogni famiglia ed è tramandata di generazione in generazione. Tradizione è la parola chiave. Alfred Marshall, uno dei primi teorici del distretto industriale affermava che “i misteri dell’industria non sono più tali. È come se stessero nell’aria, e i fanciulli ne apprendono molti inconsapevolmente”. L’economista inglese parlava anche di “atmosfera industriale”. Tradizione e atmosfera che non è possibile trasferire altrove. Le aziende coinvolte nello studio che si occupano di tartufo, ci dimostrano quanto sia fondamentale il radicamento al luogo. Questo è il vero elemento che caratterizza il prodotto. Certamente è necessario sviluppare delle competenze specifiche, ma la tradizione e la cultura sono la condizione necessaria.

Perché il distretto industriale del tartufo è da considerare un intervento di sistema?

Perché permette di sviluppare un indotto che comprende anche altri settori come la ristorazione, il commercio, il turismo, l’agricoltura…

Ci sono dati su cui poggiano le proiezioni positive sullo sviluppo economico?

Secondo la Bilancia commerciale italiana negli ultimi 15 anni le esportazioni di prodotti freschi, congelati e derivati sono aumentate. Non solo cresce il loro valore monetario ma anche il volume quantitativo. La letteratura dimostra inoltre che i distretti rurali italiani sono una garanzia di successo per i prodotti di nicchia come il tartufo. Infine, possiamo notare una crescita di patentini per cavatori rilasciati dalla Regione Marche. E c’è un dato ancor più interessante: si abbassa l’età media di chi si dedica alla ricerca di tartufi, segnale evidente che le nuove generazioni considerano appetibile questa attività.

Esistono fattori di rischio rilevanti?

Senz’altro sono di più i risvolti positivi. Ad esempio il tartufo è una sentinella ecologica, perché la coltivazione non permette l’utilizzo di agenti chimici. Ovvio, esistono alcuni rischi, ma sono contenibili: dall’est Europa, dall’Himalaya, dal Pakistan subiamo una concorrenza sleale per l’immissione sul mercato di materia prima qualitativamente inferiore. Tuttavia esiste una strategia competitiva possibile, non-price competition: scommettere tutto sulla qualità e sulla filiera. Non si vende mai soltanto un prodotto, ma l’unicità di un territorio fatto di cultura, storia, tradizione, ambiente. Il segmento di mercato medio-alto nel quale inserirsi, inoltre, risentirebbe meno delle variazioni di prezzo del prodotto.

Da dove attingere risorse per gli investimenti?

Da forme di cofinanziamento pubblico-private. Dai fondi dell’Unione europea ai Piani di Sviluppo Rurale e alle attività forestali. La sostenibilità economica c’è. Per quanto riguarda la sostenibilità ambientale la creazione di un distretto favorirebbe l’utilizzo del suolo agricolo a lungo termine e le coltivazioni biologiche. In estrema sintesi Sant’Angelo in Vado ha delle concrete opportunità da cogliere per riavviare un processo di sviluppo economico. In tutto ciò il tartufo esprime il suo alto potenziale non solo come risorsa ma anche come scommessa per il futuro. Bisogna crederci.

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