Eleonora Grassi ha le giornate scandite da ricerca, famiglia, biologia animale ed ecologia. Di una passione nata sui banchi della triennale ha fatto un obiettivo, che oggi l’ha riportata in laboratorio e l’ha aiutata non solo a realizzare il suo sogno, ma anche a ritrovare una nuova armonia personale, col cuore nella terraferma e la testa in mare.

Eleonora partiamo dai dati essenziali: età, formazione, professione.

Ho 29 anni, mi sono laureata in Scienze biologiche a Urbino, nel 2015, magistrale fuori, poi sono tornata a Urbino per il tirocinio e in seguito ho vinto il dottorato con borsa in Scienze della vita, salute e biotecnologie.

Qual è stato il motivo del tuo ritorno?

Durante l’ultimo anno di corso, alla triennale, avrei voluto fare una tesi sperimentale sulla meiofauna come indicatore ambientale. Il tentativo fallì per ragioni di tempo. Tuttavia non ho mai abbandonato il mio sogno, l’ho soltanto ripreso più tardi grazie al dottorato.

Meio…?

Meiofauna, organismi compresi tra i 30 e i 500 micron. Sono piccoli animali visibili soltanto al microscopio che vivono nei fondali marini e che possono essere usati come sentinelle della qualità ecologica e dello stato di salute dell’ecosistema.

Avevi già programmato il tuo ritorno?

No, non era tra le mie priorità, ma questo ambito di ricerca mi interessa troppo per lasciarmi sfuggire questa occasione.

Qual è il tuo gruppo di ricerca?

Il mio gruppo fa capo alla professoressa Maria Balsamo, docente di biologia animale ed esperto di meiofauna, insieme alle professoresse Loretta Guidi e Federica Semprucci.

Di che cosa ti occupi nello specifico?

Di biodiversità della meiofauna e in particolare di un gruppo animale, i nematodi, che sono estremamente abbondanti e diffusi in tutti i tipi di fondali marini. Gli studi svolti dal nostro gruppo di ricerca sono prevalentemente tassonomici, ma anche finalizzati all’utilizzo di questi animali come bioindicatori dello stato di salute dell’ecosistema, che è un elemento fondamentale per garantire la conservazione della biodiversità. Personalmente sto svolgendo analisi su campioni provenienti da tutto il mondo. L’anno scorso ho analizzato la biodiversità della meiofauna nelle acque di un porto ligure; quest’anno mi sto occupando di campioni provenienti da porti dell’Adriatico. L’obiettivo del prossimo anno è quello di studiare campioni di meiofauna provenienti dal Golfo del Messico dopo l’incidente avvenuto nel 2010 nella piattaforma petroliera Deepwater Horizon, uno dei più grandi disastri ambientali del nostro secolo. Oltre a questo ho avuto l’opportunità di osservare campioni di meiofauna provenienti dai fondali delle Isole Maldive, dell’Indonesia e dell’Antartide, dove abbiamo anche trovato nuove specie di protozoi e nematodi.

Perché finora hai citato soltanto ambienti marini?

Il gruppo di cui faccio parte è specializzato nella fauna di ambienti acquatici, io mi sto specializzando in nematodi marini.

Questo significa che i nematodi si trovano anche altrove?

Sì, ovunque: sono terrestri, marini, lacustri, salmastri, ma sono anche parassiti di piante, animali e dell’uomo stesso, hanno quindi una notevole importanza, anche dal punto di vista socio-economico.

Come avviene la comparazione?

Osserviamo nei sedimenti quali specie di nematodi abbondano o spariscono completamente in presenza di fattori inquinanti, come muta la loro diversità nel suo complesso. Essendo i nematodi organismi strettamente legati al microhabitat per tutto il loro ciclo vitale, ogni cambiamento, per esempio legato ad accumulo di contaminanti o presenza di scarichi, si riflette sulla diversità e composizione delle popolazioni di questi animali microscopici. La ricerca ormai ci dice che alcune specie sono molto resistenti, mentre altre sono estremamente sensibili. Possiamo dunque valutare il livello di disturbo antropico o ambientale presente in un’area, che potrà così essere inserita in una delle classi di qualità ecologica individuate dalle direttive europee.

Da dove trai la tua attenzione per l’ambiente, che è poi diventata anche attività di ricerca?

Sono scout, vivo in campagna e ho sempre amato molto gli animali. Aggiungo a questo una specie di vocazione per l’insegnamento. Durante il dottorato ho avuto l’opportunità di accostarmi alla didattica e alla divulgazione scientifica, ho fatto la guida ambientale in tutte le aree protette marchigiane, ma soprattutto per il Parco del Sasso Simone e Simoncello. Proprio queste esperienze naturalistiche mi hanno convinta a proseguire con la mia tesi.

Con te il “destino” è stato molto chiaro.

In realtà ha usato molta ironia.

In che senso?

La mia passione per l’ambiente terrestre fa il paio con il mio lavoro, che si svolge prevalentemente in ambiente marino. Sono sulla terraferma per passione, in acqua per dovere e interesse.

Rimanendo alla biologia, quali sono le qualità che permettono ad uno studente di adattarsi perfettamente all’ambiente universitario e al mercato del lavoro?

L’Università va vissuta fino in fondo. Consiglio di frequentare le lezioni, di partecipare a seminari, convegni, aperitivi accademici, di dare una sbirciata ad altri corsi. Gli stimoli sono infiniti e vanno colti. Da matricola è stata fondamentale la giornata di orientamento. Ritengo inoltre molto importante confrontarsi con il mondo del lavoro. Durante il corso di laurea ho sempre lavorato, prima come cameriera, poi come guida ambientale. Sono state occasioni di crescita personale.

Altro da aggiungere?

Sì, bisogna cercare di non studiare per l’esame, essere in grado di andare oltre il voto, oltre il risultato del test di verifica, è necessario studiare per capire.

Studio ergo cogito. Una cosa che hai capito in quest’ultimo periodo?

Che da mamma (di Leandro) fare ricerca è difficile ma non impossibile. All’inizio ero molto preoccupata, col tempo mi sono accorta che il mio lavoro, dopo la maternità, mi avrebbe aiutata a riappropriarmi di me stessa, a ritrovare un equilibrio tra la mamma, la moglie e la ricercatrice. Mi mancava il laboratorio e adesso, finalmente, è tornato a far parte della mia vita quotidiana.

 

Immagine di copertina e foto: Michele Dini

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