Impossibile non pensarlo: fortunato chi la incontrerà in classe o in qualsiasi altro luogo dove la missione sia quella di educare. Chiara Tontini, 21 anni, studentessa meritevole Uniurb, racconta, spiega, ride. Usa l’affabilità, l’intelligenza e il coraggio con una simultaneità impressionante, che a tratti sembrano essere la stessa cosa. Le abbiamo fatto qualche domanda sul suo corso di laurea, Scienze dell’Educazione.

Le lezioni sono finite?

Sì.

Raccontaci una tua giornata estiva.

La mattina lavoro in un centro estivo, sono volontaria della cooperativa Il Sestante, che dovrebbe essere una parte di barca. Anzi no, mi correggo, leggo dalla Treccani: strumento ottico per la misurazione dell’altezza degli astri sull’orizzonte! Insomma, passo le mie mattinate con i bambini dai 3 ai 10 anni. Facciamo laboratori e due volte la settimana le uscite. Il pomeriggio rilascio interviste (ride).

Bene, siamo già dentro l’argomento educazione.

Sì, ho scelto il centro estivo perché è in continuità con il mio percorso di studi. Non è un tirocinio vero e proprio ma è molto formativo. E poi a me piace passare del tempo con i bambini. Nella mia famiglia c’è un filo rosso che ci collega…

Che vuoi dire?

Mia mamma è maestra elementare, mia sorella è educatrice. Ah, tra l’altro si è laureata alla Carlo Bo.

Studi superiori?

Liceo delle Scienze Umane.

Quindi è stata facile la scelta del corso di laurea…?

Per la verità ero indecisa tra Scienze e Tecniche Psicologiche e Scienze dell’Educazione, divisa tra la passione per i bambini e quella per il sociale. Poi ho scelto Scienze dell’Educazione (curriculum Educatore professionale socio-pedagogico e culturale): è il corso che mi rappresenta di più e c’è molta pratica.

Fissa questa parola, pratica. Ci torneremo. Una cosa che hai apprezzato del tuo piano di studi?

Da subito mi ha introdotta allo studio della Pedagogia generale il primo anno, passando per la filosofia. All’inizio ti chiedi che cosa c’entri la filosofia con la pedagogia. Poi ti rendi conto che questa interdisciplinarità è molto importante, un valore aggiunto. Il secondo anno si va più nello specifico, in profondità.

Un pedagogo che stimi?

John Dewey, padre dell’attivismo pedagogico. Si tratta di un modello educativo che parte dai bisogni dell’individuo e adatta il contesto, l’ambiente (come potrebbe essere nel mio caso il centro estivo) a questi bisogni.

Cerchi di applicarlo?

Sì, nel mio lavoro quotidiano la difficoltà è quella di svolgere attività rivolte ad età diverse. I più piccoli hanno necessità di maggiori attenzioni.

Come si fa?

Si crea un ambiente coinvolgente, diciamo… adattivo. I più grandi collaborano con gli educatori, durante le uscite spingono il passeggino dei più piccoli. Oggi siamo andati in piscina e li hanno aiutati ad entrare nella ciambelle. Questo è molto importante.

Confronta ciò che eri prima dell’Università e ciò che sei. Che cosa noti?

Sono cresciuta. Vivere fuori da casa, perché vivo a Urbino in una bella casa rosa, convivere con persone che fino a poco tempo prima erano sconosciute, mi ha cambiata. Gli studi, le cose nuove che ho imparato, mi hanno dato conferme e maggiori consapevolezze, ma è nella relazione che ho sentito un progresso personale. Inoltre ho conosciuto tante persone di tanti posti diversi. La mia coinquilina siciliana, ad esempio, mi ha arricchito. Nella diversità c’è un tesoro prezioso!

Diversità ed educazione sono parole che hanno un qualche rapporto?

Sono legate a doppio filo. In ambito educativo ti capita di lavorare con tantissime diversità. Sono una diversità i bisogni dell’altro e se tu non riesci a prendertene cura, non puoi educare. Educare significa proprio prendersi cura di un altro e trovo che questo sia molto affascinante. Diversità ha un legame anche con la parola barriere. Ogni diversità porta con sé delle barriere che un educatore deve affrontare con professionalità, interiorizzandole senza farle diventare proprie.

Tu ne hai incontrate?

Ho dovuto affrontare la barriera della malattia. Questa, appunto, è stata la mia diversità, che oggi sento come una ricchezza. Spero abbia sviluppato in me quella sensibilità che è estremamente utile nel lavoro di educatore.

Come si vincono le barriere?

Lo studio è sicuramente un ottimo antidoto contro la paura che la differenza genera. Anche l’esperienza fa la sua parte.

Che cosa significa educare?

Partirei col dire che NON significa riempire delle teste, informare. Educare è una relazione circolare: l’educatore educa l’educando e viene educato a sua volta. L’educatore è educatore perché educa. Oggi, troppo spesso, prevale invece la concezione nozionistica. Ma non basta sapere e, soprattutto, non ci si improvvisa.

Com’è la scuola che vorresti?

Immagino una scuola più originale, dove le lezioni frontali non siano così prevalenti. Con la docente di Pedagogia dei saperi abbiamo fatto flipped learning o, come si dice,  didattica capovolta: siamo stati divisi in gruppi, ogni gruppo ha preparato delle slides su una parte diversa del programma su cui tenere la lezione. Utilissimo! Dovendo spiegare ad altri, inizi a preoccuparti di essere chiaro. Continuo a immaginare?

Sì.

Immagino più laboratori. La scuola finlandese, che funziona molto bene, ha lezioni da 45 minuti (non da 60!) e molte, molte ore di laboratorio. Lo so perché mia mamma ha fatto un anno di sperimentazione adottando proprio questo modello in classe.

Hai fatto tirocini?

Ne avrò uno tra settembre e ottobre, 140 ore di lezione, più dieci da dedicare alla relazione finale. So però che da quest’anno le ore complessive di tirocinio saranno 275.

Dove pensi di svolgerlo?

Sto pensando a una struttura per bambini affetti da autismo.

Sei felice?

Rispondo prima che sono ottimista, il bicchiere per me è mezzo pieno. Detto questo sì, mi definirei una persona felice.

Che cosa ti rende felice?

Oggi la bambina più piccola del centro estivo ha raccolto un fiorellino per me, la sua maestra.

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