Il campo profughi più grande al mondo, quasi un milione di persone in fuga dalla Birmania. Un geologo, Paolo Sordini, nato a Cagli (nella Marche), ex studente dell’Università di Urbino. Due storie che si incrociano imprevedibilmente e imprevedibilmente si mescolano cambiandosi profondamente. E si fanno una storia capace di portare luce e acqua dove c’era solo terra incolta, passione e speranza dove sembrava mettere radici soltanto la rassegnazione.

Paolo, presentati.

Ho 32 anni, sono geologo, laurea triennale in Scienze geologiche all’Università di Urbino. Il primo lavoro è stato nelle centrali idroelettriche; da qualche tempo sono in giro per il mondo con le Ong. Sono single, parlo quattro lingue, ho appena terminato l’ultima missione, la più grande e complessa alla quale io abbia partecipato.

Ok, stop. Fermiamoci alla missione. Dove?

In Bangladesh, a Cox’s Bazar. Oltre 900 mila Rohingya, una minoranza etnica di religione islamica, in fuga dal Myanmar e dal controllo militare del Paese. La discriminazione e persecuzione di questo popolo è andata avanti per anni ed ha raggiunto il suo apice in agosto 2017, quando oltre 600 mila Rohingya si sono riversati in Bangladesh in un solo mese per sfuggire alla pulizia etnica ad opera dei militari. Una situazione per la quale le Nazioni Unite hanno parlato di genocidio.

Che cosa ci fa un geologo in un campo profughi?

Si occupa di risorse idriche, più nel dettaglio di Water, Sanitation and Hygiene (WASH): acqua, gestione dei servizi sanitari e igiene. L’errore comune è quello di pensare soltanto ai laureati in medicina quando si sente parlare di Medici Senza Frontiere. Non è così, ci siamo anche noi geologi ed abbiamo un ruolo centrale, perché riusciamo a risalire alle cause delle emergenze. Se scoppia un’epidemia di colera i medici curano i sintomi, ma gli esperti WASH fanno “assessment”, valutando le condizioni igieniche e intervenendo sulle cause.

In Bangladesh qual è stato il progetto che hai seguito?

Mi sono occupato della perforazione di pozzi e della costruzione di sistemi di trattamento e di distribuzione dell’acqua, a partire dallo sviluppo del modello digitale fino al collaudo sul campo. Attraverso un sistema alimentato da pannelli solari, in grado di azionare pompe sommerse, siamo riusciti a garantire acqua potabile a 80 mila persone. Mai e poi mai avrei pensato di finire in Bangladesh, nemmeno un anno fa. Un geologo in un campo profughi? Quando sono arrivato, tuttavia, incontrando tanti idrogeologi, mi sono reso conto di quanto potessero essere utili le mie competenze.

Quali condizioni di lavoro hai trovato?

Ho vissuto per nove mesi con altri colleghi a dieci minuti di auto dal campo profughi. Tra il coprifuoco e i difficili spostamenti abbiamo condiviso tanto tempo. Detto questo smetti di pensare alle tue condizioni quando, a pochi chilometri da te, le persone vivono in capanne improvvisate di plastica e bambù e le donne, la sera, rischiano di essere violentate in strada mentre tentano di raggiungere la latrina. In mezzo a tutto questo ti risarcisce sentirti utile, realizzato. Concretamente puoi fare qualcosa per gli altri!

L’emergenza umanitaria più grande al mondo occupa un piccolo spazio nella scena pubblica occidentale. Perché?

Siamo nel novero delle crisi dimenticate. Quando scoppia un’epidemia, un terremoto, arrivano tante donazioni, tutti ne parlano. Ma se la crisi cessa di essere un evento, cessa di essere. Per usare un eufemismo, siamo distratti e questa è una delle ragioni che mi ha convinto a uscire fuori e vedere con i miei stessi occhi.

Come è avvenuto il tuo incontro con le Ong?

Il mio primo avvicinamento è avvenuto grazie ad un missionario, con il quale ho vissuto in Colombia per diversi mesi, partecipando alle attività con i bambini e la gente di strada nelle periferie di Medellin e Cali. È stato un privilegio e un passaggio fondamentale nella mia vita. Poi mi sono rimesso in cammino, ho lavorato per una grande compagnia di costruzioni ed è stata un’esperienza formativa importante, ma mi mancava ancora un tassello personale, avevo bisogno di sentirmi utile. Così, quando si è interrotto il contratto, sono tornato a Urbino, dove, tramite il mio prof Alberto Renzulli, sono riuscito a raggiungere i referenti della Ong Geologi senza Frontiere. In quel momento è iniziato un nuovo corso professionale, che mi avrebbe portato in Togo, ad Haiti, in Perù, in Canada, in Camerun e in Bangladesh. Ho avvertito subito che con il mio lavoro potevo cambiare le cose, fosse anche una piccola goccia nell’oceano.

Cosa c’è stato di prevedibile e cosa di imprevisto?

Di prevedibile nulla, a partire dalla scelta del corso, subito dopo le scuole superiori.

Vuoi raccontare questa storia?

Sì, non lo dimenticherò mai! Tutto ha avuto inizio davanti a un cappuccino. Lavoravo come barista, era estate. Entra un cliente, un anziano geologo mio vicino di casa, inizia a parlarmi di una frana in zona. Ascoltarlo mi ha incuriosito. Qualche tempo dopo, consigliato da un amico già iscritto a Urbino, decido di chiedere informazioni sul corso di laurea. Incontro un docente che in un’ora mi spiega l’offerta formativa nei dettagli. È stata una bella presentazione, mi ha fatto sentire degno di considerazione.

Quindi?

Beh, mi sono iscritto alla triennale in Scienze Geologiche, che mi ha restituito indietro non solo una competenza, ma l’incontro con professori sempre pronti a dedicarti tempo, persone che con me hanno fatto coaching.

Torniamo al mondo delle Ong, al tuo grande salto. Hai dovuto affrontare resistenze personali prima di cambiare radicalmente vita?

Quando ho iniziato il mio percorso di studi non avrei mai pensato di allontanarmi così tanto dalla mia città (Cagli), dalle mie montagne. Ho sempre sentito addosso la fortuna di essere nato in un luogo molto bello. Pur continuando a sentire questa fortuna, ho imparato a inseguire ciò che mi rende veramente felice.

Ti definiresti coraggioso?

Non sono coraggioso, sono curioso. La curiosità, aiutata dall’incoraggiamento di un professore, mi ha permesso di partecipare al programma Erasmus. Sono stato in Spagna, ho imparato lo spagnolo, che mi ha aperto le porte del Sudamerica dove, tra l’altro, andrò presto in missione. Oggi, dopo un percorso fatto di mille incertezze, posso comunicare in quattro lingue. Al posto del coraggio ci metterei anche una formazione solida, a partire dai tre anni alla Carlo Bo. È rischioso, non coraggioso, inserirsi in un contesto di lavoro, soprattutto un contesto di emergenza umanitaria, senza adeguate competenze.

Chi è Paolo al di fuori del suo lavoro?

Un ragazzo che ama il teatro, il trekking, i viaggi, gli incontri con altre culture e la musica. La mia chitarra mi segue sempre, ovunque io vada.

Qual è la motivazione che determina e guida le tue giornate?

Credo che le mie capacità personali possano migliorare la vita di altre persone che soffrono. E credo che questo sia possibile laddove le organizzazioni non governative hanno un reale impatto nella vita sociale.

L’impatto più forte a cui hai assistito?

I sistemi di rifornimento idrico che abbiamo installato in Bangladesh prevedono grandi serbatoi di raccolta collegati a fontane. Ecco, il momento del collaudo delle fontane è uno di quelli che ti si depositano dentro. La gente si avvicina, in attesa di capire che cosa succederà. Quando apri la valvola e dai acqua ai rubinetti vedi bambini ridere e giocare, mentre le donne corrono a prendere le loro bacinelle per attingere. Vedi la gioia, la vera gioia, reduce da un bisogno primario, dalla sete.

Come è stata la selezione per accedere alle Ong?

Per entrare a far parte di Medici Senza Frontiere ho inviato il mio cv e compilato un questionario in cui si chiedeva quale sarebbe stato il mio contributo e quali fossero le mie esperienze lavorative precedenti. Ho poi avuto un lungo e piacevole colloquio telefonico focalizzato sulle mie motivazioni. Sono quindi passato al terzo step, una giornata nella sede a Roma per la selezione finale.

Consigli da dare?

Consiglio innanzitutto di non avere fretta. Ogni percorso è una collezione di tappe. Secondo consiglio, riflettere bene con sé stessi. La bussola delle scelte è ciò che ci rende felici, non le influenze dall’esterno. Oggi spesso, prima di decidere l’Università o il lavoro, si usa il criterio del guadagno economico, attribuendogli un grande peso nella scala dei valori. Io credo invece che, presto o tardi, una scelta che non si regga anche su altri valori ed emozioni proprie si rivelerà insoddisfacente.

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