Si chiamava ISEF (Istituto Superiore di Educazione Fisica). Oggi Scienze Motorie, Sportive e della Salute. Di cose ne sono cambiate molte in quasi sessant’anni di un corso di laurea e di un Paese che hanno avuto una mutazione velocissima ma che, più nel profondo, hanno conservato tanti valori irriducibili. Mario Agostini ha vissuto questo cambiamento. Sfoglia tra le mani un personale reperto, sembra parlare di tutt’altra storia, di un’altra epoca. Effettivamente è così, ma non per tutto.
Che cos’è che stringe con tanta convinzione?
Un libretto universitario. Qui c’è la mia foto, qui la data e la firma dell’immatricolato, cioè la mia. Matricola numero 1. Controfirma del direttore amministrativo Leonardo Paloscia.
Rettore?
Naturalmente Carlo Bo.
Dunque lei è stato il primo studente ISEF.
Proprio così, ho frequentato il primo anno di corso. Mi sono iscritto il 31 dicembre 1963.
Il Muro di Berlino sarebbe stato in piedi ancora per un po’, Giovanni Paolo II non si era ancora affacciato dalla loggia centrale della basilica di San Pietro, la luna e Apollo 11 erano distanti. Un altro mondo.
Sì, lo era. E iscrivermi all’Università, all’Istituto Superiore di Educazione Fisica non era la stessa cosa di oggi. C’era molta avventura dentro quel gesto.
Perché?
Per un motivo molto semplice: c’era una richiesta depositata al Ministero, proveniente da Urbino, che chiedeva il riconoscimento del corso di laurea. L’educazione fisica all’Università era ancora pionieristica.
Qual era il rischio?
Rischiavamo di buttare tre anni di studio senza poter conseguire il titolo.
Non è stato troppo azzardato fare una scelta del genere?
Già insegnavo alle scuole elementari. Dopo il diploma magistrale ero stato prima nella scuola carceraria di Pesaro, poi a Piandimeleto e dintorni. Ma volevo insegnare educazione fisica ai ragazzi. Mi piaceva l’atletica leggera e volevo essere capace di insegnarla. Diciamo che ci fidammo tutti – col senno del poi giustamente – di Carlo Bo e della sua intuizione.
Cosa insegnava prima?
Ero maestro unico, tutte le materie.
Dicevamo del perché della scelta.
All’inizio mi interessai a Bologna. Poi venni a sapere che a Urbino stava nascendo l’ISEF.
Come le arrivò la notizia?
In verità già frequentavo la città di Urbino per le lezioni della Scuola Magistrale Ortofrenica. Così scoprii l’Istituto nascituro e partecipai alle selezioni con 200 ragazzi, soprattutto uomini, da tutta l’Italia. Tre test da superare: visita medica, qualche prova sportiva, cultura generale.
Qual era la durata del corso?
Tre anni.
Un domanda che facciamo sempre alle nostre matricole: difficoltà iniziali?
Il primo anno mi costò un po’ di fatica di adattamento. Tutto qui.
Se andassimo a rileggere la scheda del corso che cosa troveremmo?
Molta attività fisica e lezioni concentrate il sabato e la domenica.
La domenica?
Sì, la domenica, per consentire a chi già insegnava nelle scuole di non perdere le lezioni. Nei mesi di giugno e luglio recuperavamo i giorni persi.
Il clima di allora tra colleghi studenti quale era?
Ricordo un grande affiatamento, tanto lavoro ed entusiasmo. Tutti volevamo riuscire in questa grande scommessa personale, di gruppo e di un intero Ateneo.
Che cosa rappresentava il traguardo della laurea?
Una grande conquista, la realizzazione di un progetto.
E tra voi e il traguardo cosa c’era in mezzo?
A parte gli esami da sostenere? Le ispezioni continue del Ministero che stava valutando la qualità del corso per il riconoscimento giuridico. I commissari assistevano alle nostre prove, verificavano il funzionamento delle palestre. Tutto ciò, se da un lato ci metteva in fibrillazione, dall’altro ci spingeva a fare del nostro meglio.
Avete vinto la scommessa.
Mi sono laureato nel giugno del 1967, poi ho conseguito l’abilitazione all’insegnamento. Un anno dopo, a Roma, ho partecipato al concorso nazionale e l’ho superato. La prima cattedra di ruolo l’ho avuta all’ITIS “Enrico Mattei” di Urbino, era il primo ottobre del 1970. Dopo varie esperienze nelle scuole del territorio sono approdato all’Istituto Tecnico Economico Tecnologico Bramante Genga, dove poi ho concluso la mia carriera lavorativa dopo altri 30 anni di insegnamento.
Cosa ricorda del suo giorno di laurea?
È stato un giorno importante, ma senza festeggiamenti. Alla discussione della tesi ero solo, come quasi tutti i miei colleghi laureandi. Io sono orfano di guerra e senza fratelli. Mia madre, che certamente era felice nel vedermi felice, non venne. Erano tempi diversi, con altre priorità, altre sensibilità, soprattutto nei territori di periferia. Si diventava responsabili fin da piccoli.
Come ha vissuto il ‘68 da giovane insegnante?
Tranquillamente, senza mai avere grandi scontri con i ragazzi, ma insieme a loro. Le scuole superiori nelle quali svolgevo il mio lavoro non erano un “fronte caldo”. Io ho sempre vissuto con molta commozione la fiducia che i ragazzi mi accordavano anche in quegli anni difficili.
Qual è la risposta di un insegnante a questa fiducia?
La risposta è guidarli nella comprensione della società. L’insegnante deve essere con i ragazzi, capirli e aiutarli a capire. L’equazione è che tu dai uno e loro ti restituiscono il doppio.
I suoi ex studenti li rivede ancora oggi?
Sì, a volte li incontro ed è bello vedere come i giovani di allora, benché ormai adulti, conservino un piacevole ricordo della scuola. Parlano ancora della gioia che avevano nello stare in palestra e dell’entusiasmo delle gare. Il loro ricordo, filtrato dagli anni trascorsi, è una macchina del tempo, è la mia giovinezza.