Ris dell’arte, inteso come Reparto investigazioni scientifiche, è probabilmente l’immagine più efficace per cominciare a parlare del lavoro di Maria Letizia Amadori. Piccoli campioni che permettono di risalire alla tecnica pittorica e (talvolta) all’autore, proprio come succede ai colleghi più noti alla cronaca. Soltanto che l’autore è un artista, l’indizio un frammento e il corpo del reato, spesso, un capolavoro.

“Sono geologa”. Inizia da molto lontano, dalla sua formazione di base. Così lontano che mentre punta alla tempia del signor Teodoro Giusti la sua pistola da Ris dell’arte, uno spettrometro XRF, l’immagine della prima laurea, lanciando uno sguardo a ritroso, è offuscata. Vederla impegnata a passare ai raggi x la tela, la geologia è una scienza incoerente con il presente. Eppure non è del tutto così. Anche se, è la prima ad ammetterlo, il percorso di Maria Letizia Amadori, ricercatrice Uniurb, letto complessivamente ha davvero dell’imprevedibile.

 

La Professoressa Maria Letizia Amadori

Andiamo al cuore della questione e spieghiamo come e perché una geologa ha finito per occuparsi di arte…

Avevo già dentro un amore per questo tipo di ricerca. Anche se quando ti iscrivi all’Università non hai chiari gli obiettivi, da qui nascono opportunità prima inesistenti. Io non sapevo che mi sarei interessata di scienza applicata ai beni culturali. La matrice di tutto è stata la curiosità, la voglia di capire che cosa c’è dietro la materia artistica, di indagare la tecnica esecutiva, che poi è un modo di allungare la vita alle opere d’arte.

Il suo è un curriculum anomalo, soprattutto lo era 20 anni fa.

Mi sono laureata a Urbino. Al CNR di Roma, ho lavorato presso il Centro Conservazione Opere d’arte e successivamente all’Istituto di Tecnologie Applicate ai Beni Culturali. Lì ho capito definitivamente che questa sarebbe stata la mia strada e ho deciso di frequentare uno dei primi corsi universitari di specializzazione. La svolta definitiva è stata una borsa di studio per Selinunte, dove mi sono occupata di materiali lapidei. Attraverso indagini minero-petrografiche e isotopiche dovevo stabilire la provenienza della pietra e dei marmi impiegati per la costruzione dei templi. Le stesse modalità di indagine sono state poi mutuate in edifici di epoca romana.

La pietra ha, letteralmente e metaforicamente, innalzato un edificio.

Dalla pietra e dai marmi mi sono spostata sulle ceramiche puniche e romane perché nel frattempo, per motivi familiari, mi ero trasferita all’Istituto Ricerche Tecnologiche per la Ceramica CNR di Faenza. Dallo studio della ceramica faentina sono arrivata alle maioliche rinascimentali di Fano, Pesaro, Urbino e Urbania. Lì è nato il mio rapporto lavorativo con la città ducale, dove ho proposto un corso di restauro sulla ceramiche da farmacia a Marina Dachà e Giorgio Cerboni Baiardi. Avremmo insegnato tutto sulla storia della maiolica e sull’impiego di questo materiale, sulla provenienza dell’argilla, sulla lavorazione, che (detto per inciso) nasconde una tecnologia pazzesca, si pensi alle fasi di decorazione, invetriatura e cottura… Non era mai stato fatto niente di simile nel territorio.

Nemmeno le ceramiche sono state un punto di arrivo…

No, subito dopo è arrivata la fase dell’affresco, dei dipinti su tela e tavola e dei dipinti su rame. Ma ho studiato anche il corallo trapanese. Negli anni mi hanno affiancata assegnisti e studenti tesisti di vari corsi di laurea, principalmente quelli di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali (diretto da Laura Baratin), che hanno strutturato i loro lavori di ricerca su queste tematiche. Il contributo che danno è sempre incredibile, sono una risorsa per la ricerca, hanno tante idee e capita spesso che siano loro a proporre nuovi materiali di studio. Il risultato sono questi scaffali pieni di tesi alle mie spalle.

Qualche esempio?

Questa (solleva un volume) è una tesi sulla latta utilizzata nell’arte, che ritroviamo anche nei trattati antichi di tecnica. Per la ricerca, che è poi propedeutica alla conservazione e al restauro, si parte sempre dai materiali.

Quando la scienza, in particolare la chimica, iniziano a interessarsi di arte?

Le scienze chimiche nei primi anni ‘40 del Novecento sono discipline ausiliarie dell’archeologia. A seguito dell’alluvione di Firenze, nel 1966, si sviluppa una forte interazione tra la scienza della conservazione e del restauro e la ricerca archeometrica. Negli anni Settanta quest’ultima si perfeziona e vengono sviluppate tecniche informatiche e di imaging. Poi negli anni ‘80 c’è un’esplosione di questo tipo di indagini.

Abbiamo detto che la pittura è la sua terza fase di studio dei materiali. A quali opere o autori si è dedicata?

In questi anni mi sono concentrata su tutte le opere di Giovanni Santi, sugli Uomini illustri dello Studiolo del Duca Federico, su Lorenzo Lotto, Caravaggio…

Qual è il criterio di scelta?

Agli Uomini illustri sono arrivata attraverso la querelle attributiva. Mi sono messa a caccia di prove che potessero darci qualche informazione in più sull’autore o sugli autori. Solitamente il punto di partenza di una ricerca è la curiosità, una questione storica o archeologica rimasta irrisolta. Si tratta, in definitiva, di rispondere a certi interrogativi ancora aperti attraverso gli strumenti e le conoscenze della chimica e della fisica.

La domanda sugli Uomini illustri ha innescato una reazione a catena di non poco conto. Potrebbe raccontarcela?

La ricerca sugli Uomini illustri mi ha portata a Parigi, dove sono custoditi 14 dei 28 ritratti dello Studiolo di Urbino. Nel laboratorio diagnostico del Louvre stavano facendo la stessa indagine. Un interesse che ho scoperto essere comune chiacchierando con il direttore del Dipartimento di ricerca del Louvre, Michel Menu, a margine di un convegno e che è stato poi condiviso anche dalla Galleria Nazionale delle Marche, diretta all’epoca dalla soprintendente Maria Rosaria Valazzi. Ho presentato quindi un progetto di ricerca alla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro nel quale ho coinvolto anche alcuni colleghi coordinati da Rocco Mazzeo dell’Università di Bologna.

L’idea ha poi preso anche altre direzioni, giusto?

Sì, è stata il detonatore della mostra evento Lo studiolo del Duca, il ritorno degli Uomini Illustri alla Corte di Urbino che, nel 2015, dopo quattro secoli, ha permesso di ricostruire l’unità originaria della composizione.

Quali sono state le fasi dello screening?

Siamo partiti dalla rilevazione del disegno tramite immagini multispettrali a raggi infrarossi. L’obiettivo era capire se la mano fosse la stessa in tutti i ritratti. Naturalmente il nostro studio ha riguardato le tavole urbinati. I francesi hanno invece lavorato sulle tavole conservate al Louvre.

Che cosa è emerso?

Le indagini riflettrografiche hanno confermato l’ipotesi di Giusto di Gand autore del disegno, talvolta aiutato dai suoi collaboratori. Sono presenti numerose modifiche effettuate a livello pittorico. Tuttavia in pochi casi alle modifiche è associabile un disegno differente da quello dell’artista fiammingo.

Qual è stato il parametro di riferimento da cui partire?

Siamo partiti dalla grande tavola raffigurante la Comunione degli Apostoli che, grazie a documenti appartenenti alla Confraternita del Corpus Domini, sappiamo essere stata commissionata dal duca Federico da Montefeltro. Il confronto con i disegni presenti nelle tavole ci ha permesso di capire quali dettagli (soprattutto volti e mani) fossero sovrapponibili e, dunque, attribuibili a Giusto.

Qual è stato l’esito?

Come accennato, se da un lato i confronti riflettografici con la Comunione confermano la paternità di Giusto di Gand, non si può escludere la partecipazione “pittorica” di più artisti e/o collaboratori. E’ stato inoltre rilevato l’utilizzo di olio come legante, ciò a conferma di un “maestro solenne” dalle Fiandre chiamato da Federico per dipingere ad olio. In Francia le ricerche hanno condotto alla stessa conclusione.

Oltre agli infrarossi quali altre tecniche avete applicato alle tavole?

Abbiamo usato anche la fotografia infrarosso falso colore, che ci ha fornito informazioni sui pigmenti utilizzati. Da questo punto di vista la tavolozza rinascimentale non ci ha restituito sorprese. Al più abbiamo riscontrato la presenza di ritocchi d’epoca moderna.

A questo punto quali altri metodi diagnostici avete utilizzato?

La fluorescenza a raggi X, che rivela la composizione chimica dei pigmenti. Nemmeno questa però è l’ultima fase. In effetti resta ancora da conoscere il tipo di pennellata attraverso un campione (dell’ordine di 400 micron) osservato al microscopio. Sulle tavole studiate lo spessore, molto sottile, è compatibile con quello riscontrato in Giusto di Gand. Eppure non mancano le eccezioni. Abbiamo trovato infatti strati più semplici e più complessi, frutto talvolta di ripensamenti. Oppure, nel caso del telo dipinto dietro gli uomini illustri, la stratigrafia ci ha mostrato variazioni anche significative.

Dunque manca ancora una risposta univoca sull’autore?

Proprio così. D’altra parte l’attribuzione è la questione centrale anche in un altro studio ancora in corso su Giovanni Santi e per il quale collaboro con Gianluca Poldi, dell’Università di Bergamo. Del padre di Raffaello si sa che era poliedrico: imprenditore, scrittore, scenografo… Sono note le opere di bottega, ma non si conoscono con certezza, date anche le differenze emerse, su quali avesse effettivamente lavorato. Dagli studi effettuati emerge l’assenza di variazioni significative in corso d’opera. Ciò testimonia indirettamente, insieme alle caratteristiche del disegno, l’utilizzo di cartoni, trasferiti (forse con spolvero, forse con carta carbone), per mezzo di tracciati neri ripassati a pennello e quindi spazzolati per evitare di sporcare le successive stesure di colore. Il modo di dipingere di Santi rimane ancora un mistero. Scoprirlo è importante per capire l’influenza della pittura fiamminga su quella italiana. Federico scelse la pittura a olio per una resa più luminosa e brillante rispetto alla tecnica della tempera all’uovo. Il confronto fra le due ci consente dunque di ricostruire la penetrazione di una pratica mutuata da artisti stranieri e che si sviluppa anche al di qua delle Alpi.

In che modo la diagnosi chimica può rintracciare questa contaminazione?

A livello chimico riscontriamo questa influenza nell’utilizzo di materiali come la polvere di vetro, che ritroviamo tanto in Giusto di Gand quanto in Giovanni Santi. Lo stesso materiale ricompare anche nella tavolozza di Raffaello, a dimostrazione della progressiva diffusione di una tecnica prima sconosciuta nell’Europa mediterranea. Si aprono quindi altri interrogativi, per esempio circa la produzione del vetro in quegli anni a Urbino: arrivava sulla tavolozza, ma da dove proveniva precisamente?

Curiosità e domande simili l’hanno condotta a viaggiare molto.

Ho fatto ricerche in Birmania, Iran, India, Marocco, Egitto, Ungheria… E’ appena uscito su Archeologia viva un articolo sulla copia persiana della Porta di Ishtar, rinvenuta nella piana di Persepolis grazie agli scavi delle Università di Bologna e Shiraz. Insieme ai colleghi iraniani abbiamo svolto analisi archeometriche che rivelano parti comuni tra le due porte, un originario fondo di colore blu non più visibile. Mi sono occupata anche delle pitture di Paestum, studiate da tanti gruppi di ricerca. Tuttavia nessuno prima di noi aveva trovato l’antimoniato di calcio nei pigmenti. Si tratta di piccolissime particelle di forma esagonale finora identificate solo nei vetri o nelle ceramiche invetriate.

Che cosa ci indicano?

L’utilizzo di questo materiale suggerisce il probabile contributo di ceramisti, che ne facevano uso, a conferma di alcune ipotesi archeologiche che li vogliono tra le maestranze. L’influenza tecnica è importante e in qualche caso può divenire anche influenza stilistica. Non sappiamo ancora le ragioni della presenza di questo elemento nelle pitture.
A differenza del caso di Giovanni Santi e dell’utilizzo della polvere di vetro. Qui invece la motivazione è nota: migliora la resa pittorica e facilita l’essiccamento dell’olio.

Di quali altri materiali “insoliti” sono fatti i quadri, le tavole o gli affreschi?

In Lorenzo Lotto abbiamo trovato lo zafferano. Un’altra pratica era quella di utilizzare lacca rossa ottenuta dagli insetti gravidi, opportunamente trattati. Curioso è stato inoltre il ritrovamento di microfossili nella preparazione del Cavaliere di Malta di Caravaggio. A breve mi recherò a Malta per studiare il San Giorolamo scrivente e spero di trovare altri elementi utili a caratterizzare la sua pittura.

Lo studio chimico dei beni culturali è autonomo dal resto della ricerca in campo artistico?

Assolutamente no. Non tutti gli storici dell’arte sono interessati a questo tipo d’analisi ma è ormai evidente che la ricerca non si può più svolgere a compartimenti stagni. Il vecchio mondo, diviso tra umanesimo e scienza, rischia di portare a conclusioni sbagliate lo studio delle opere. Senza contare che questo intreccio di discipline consente di smascherare i falsificatori. Mi sono occupata per conto di una casa d’aste di attribuzione. Spesso capitano dei falsi che le indagini permettono di smascherare. Ho fatto perizie su materiale sequestrato da un mercato antiquario. Un’esperienza interessante è stata infine lo studio di una copia della Gioconda del ‘500 a Palazzo Montecitorio. Prima delle nostre analisi era datata agli inizi del ‘900, per cui è stata rivalutata e sistemata in una collocazione adeguata.

Qual è il contraccolpo personale di ogni scoperta?

E’ come riuscire a sentire, improvvisamente, la voce dell’opera. In questo modo l’arte non solo può conservarsi e sopravvivere, ma vivere.

 

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